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Zuleika apre gli occhi. Guzel’ Jachina racconta la deportazione dei kulaki

“A destra e a sinistra ha i serpenti giganteschi di treni lunghi decine di vagoni. Sotto i piedi i nastri infiniti dei binari e le costole delle traversine, su cui avanzano frettolosi i valenki di feltro impregnati di neve fresca, le scarpe sfondate e gli stivali infangati dei deportati… L’enorme locomotiva si avvicina in una nuvola di vapore caldo e soffice. La scocca rosso fuoco si insinua nell’aria, fendendola, i volani sembrano pale da mulino impazzite. Il rumore, il fracasso, è tremendo. È la prima volta che Zuleika vede un treno. Le sfilano davanti le lettere sghembe di vernice bianca sulla fiancata: PER LA FELICITA’ SEMPRE AVANTI”. Il treno è l’elemento portante dell’Odissea di Zuleika – una contadina tatara che si trova proiettata, suo malgrado, nelle sorti del “progresso” sovietico, alla ricerca della uguaglianza sociale – raccontata da Guzel' Jachina nel libro “Zuleika apre gli occhi” (Salani). In nome della rivoluzione proletaria centinaia, migliaia di famiglie vennero deportate in luoghi inospitali e impervi; imboccavano le distese del Tartastan Rosso in carovane interminabili di slitte. Dopodiché le attendeva un lungo viaggio in treno. La meta non la conoscevano né loro né chi li scortava. Una cosa era chiara, andavano lontano, molto lontano, “andavano in un luogo dove quelle sanguisughe, quegli sfruttatori avrebbero potuto riscattare il proprio passato col sudore della fronte, guadagnandosi il diritto a un futuro migliore”, dice Ignatov, uno dei personaggi centrali che da buon rivoluzionario crede fermamente in questo piano, che ai nostri occhi appare davvero insensato e disumano.

Indiscutibilmente un grande esordio per la scrittrice quarantenne del Tatarstan, dato che il romanzo, vincitore di numerosi premi, è stato tradotto in tantissime lingue.  Guzel’ Jachina indaga su un triste capitolo di storia, sconosciuto ai più e oscurato per decenni, e lo fa bene. La deportazione dei kulaki: “l’esilio” di circa quindici milioni di uomini, donne e bambini nelle zone gelide e disabitate della Siberia da parte del governo di Stalin.  Ci sembra impossibile sopravvivere a tutto quello che hanno dovuto sopportare queste persone nel periodo staliniano e infatti molte di loro non ce la fanno, ma Zuleika sì e con lei, poco a poco, anche altri.  La storia è vista attraverso il punto di vista di Zukeika, che fa commenti e riflessioni, con i suoi occhi di contadina semianalfabeta: “Ormai si era abituata all’idea come il bue si abitua al giogo e il cavallo alla voce del padrone. A qualcuno toccava solo un pizzico di vita, come alle sue figlie, ad altri una manciata, altri ancora ne ricevevano con generosità, a sacchi, a granai interi come sua suocera. Ma la morte aspetta tutti quanti, nascosta dentro a ognuno e appaiata al suo fianco; si strofina alle gambe come un gatto, si posa ai vestiti come la polvere, si infila nei polmoni come l’aria. La morte è ovunque: più scaltra, più intelligente e più forte della vita che, sciocca, con lei perde ogni battaglia…Che forma avrebbe preso la sua morte? Quella del giovane soldato con la lunga baionetta in pugno?”.

Compaiono anche altri personaggi e altri punti di vista, diversi dal suo. Al campo sono presenti le categorie umane più importanti: il dottore, l’agronomo, il vigliacco, il rivoluzionario opportunista, il cattivo, la donna col bambino, il militare severo. Ignatov “ragazzone alto con le spalle larghe, lo sguardo sprezzante e i modi austeri nella sua vita polverosa” un illuso, vittima anche lui dell’ideologia. In una sorta di determinismo naturale, sopravvive nel gulag chi si adatta. Come fanno anche I pietroburghesi colti e un po’ snob che parlano francese, mentre Zuleika non capisce bene nemmeno il russo; il professor Leibe, a modo suo si adatta e torna a essere il luminare non dell’università bensì di una piccolo ospedale da campo, come gli altri, ma tanti muoiono in modo assurdo e insensato per ubbidire a ordini, talvolta nemmeno pronunciati dai capi, ma introiettati nella testa del comandante Ignatov.
Il romanzo ha il sapore delle antiche fiabe russe con la suocera vampira che è Baba Jaga, gli spiriti della foresta, lo zucchero per uccidere le bestie. Riecheggia consapevolmente la tradizione della letteratura come La coabitazione con Grunja che tradisce il suo ex padrone per prendergli la bella stanza, del Dottor Zivago, E ancora la povera Lisa, la ragazza vessata che non si ribella, presente in tanti romanzi russi, ma qui Zuleika apre davvero gli occhi. Sulle orme di Lev Tolstoj, l’autrice mostra la condizione dei più deboli travolti dagli ingranaggi della Storia.  E i paesaggi che fanno da sfondo al romanzo immensi, dilatati nel gelo e in una dimensione fuori dal tempo sono davvero bellissimi. “Le curve verdi e rigogliose della riva sinistra sono gonfie come pasta lievitata nel mastello e ricadono in riflessi di smeraldo nel piombo dello specchio del fiume. L’acqua è una tela pesante e ampia che avvolge tutto pigramente e si perde nell’azzurro dell’orizzonte, nello Enisej”. “Non è cambiato nulla da allora. I leader della rivoluzione hanno preso il posto di imperatori e zar, ma il carcere di smistamento è rimasto fedele a se stesso, come ogni vecchia prigione che si rispetti. Di lì sono passati i forzati diretti in Siberia, nell’oriente più estremo e in Kazakistan in modo assurdo e irrazionale, per fedeltà agli ordini del capo, in nome della purezza della rivoluzione”.  Un racconto struggente, duro, estremo che apre una speranza, non piccola direi, sulla forza degli esseri umani, in questo caso, la protagonista, una donna. Accanto a Zuleika troviamo anche un uomo con cui bene o male dividerà la sua vita. Perché c’è sempre un puntino rosso nel buio della tajga, un puntino verso cui guardare e quel puntino alla fine darà un senso alla vita di loro due, ma anche di tutti noi.

Intervista all’autrice https://www.mangialibri.com/interviste/intervista-guzel%E2%80%99-jachina
 

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