C’è chi dice che l’ultimo premio Strega avrebbe dovuto vincerlo Paolo Giordano con il romanzo “Divorare il cielo”; e è chi dice che questo libro rappresenti la prova della raggiunta maturità per (l’allora sopravvalutato?) autore de “La solitudine dei numeri primi”. Indubbiamente Giordano ha scritto oggi un romanzo di notevole potenza e complessità, risolte però – e non sfugge al lettore – con una scrittura controllatissima, ‘semplice’.
Siamo negli anni Novanta, i protagonisti sono quattro adolescenti e la storia racconta di loro fino all’età adulta, lungo l’arco di vent’anni. L’adolescenza è l’età dei sogni, dei progetti, della ribellione, dell’utopia, del cosa credere e del cosa fare per dare un senso alla propria vita. Il luogo che li vede insieme è una masseria della Puglia, che per i quattro, anche una volta adulti, rappresenterà il mondo: alternativo, passionale, vissuto al limite. Da lì si può, giustappunto, divorare il cielo, compreso Dio.
A tenere il filo narrativo è Teresa, anche se diverse e discontinue sono le trame che si intrecciano. E sarà lei che a prezzo di molto dolore, operando tutto lo scavo interiore che richiede la conoscenza di se stessi e dei sentimenti umani, resterà, alla fine, a presidiare quel luogo della campagna pugliese fattosi centro dell’universo; quando, trascorse molte stagioni, la vitalità lascia il posto alla vita, alla conoscenza della vita.
«Li vidi bagnarsi in piscina, di notte. Erano in tre ed erano molto giovani, poco più che bambini, come allora ero anch’io.
A Speziale il mio sonno era interrotto di continuo da rumori nuovi: il fruscio dell’impianto d’irrigazione, i gatti selvatici che si azzuffavano nel prato, un uccello che produceva lo stesso suono all’infinito. Nelle prime estati dalla nonna mi sembrava quasi di non dormire mai. Dal letto dov’ero sdraiata, guardavo gli oggetti della stanza allontanarsi e avvicinarsi, come se la casa intera avesse un respiro.
Quella notte sentii dei rumori in cortile, ma non mi alzai subito, a volte l’uomo della vigilanza arrivava fino all’ingresso per lasciare un biglietto incastrato nella porta. Ma poi ci furono i bisbigli e le risate trattenute. Allora mi decisi a muovermi.
Evitai con i piedi il fornello per le zanzare che dal pavimento spandeva una luce azzurra, raggiunsi la finestra e guardai in basso, troppo tardi per vedere i ragazzi che si spogliavano, ma in tempo per sorprendere l’ultimo di loro mentre scivolava nell’acqua nera.
L’illuminazione del portico mi permetteva di distinguere le loro teste, due più scure e una che sembrava d’argento. A parte quello, visti da lì erano quasi identici, muovevano le braccia in cerchio per tenersi a galla.
C’era una specie di tranquillità nell’aria, dopo che la tramontana si era calmata. Uno dei ragazzi si mise a fare il morto al centro della piscina. Sentii bruciare la gola alla vista improvvisa della sua nudità, anche se era soltanto un’ombra, la mia immaginazione più che altro. Inarcò la schiena e s’inabissò con una capriola. Riemergendo, cacciò un urlo e l’amico con la testa d’argento lo colpì in faccia per zittirlo.
– Mi hai fatto male, cretino! – disse quello della capriola, ancora a voce alta.
L’altro lo spinse sott’acqua, poi anche il terzo gli si buttò addosso. Avevo paura che si picchiassero, che qualcuno potesse annegare, invece si staccarono ridendo. Si misero a sedere sul bordo dalla parte meno profonda, rivolgendomi le schiene bagnate. Il ragazzo al centro, il più alto, allargò le braccia e le mise intorno al collo degli altri. Parlavano piano, ma riuscivo a cogliere qualche parola staccata.
Per un attimo pensai di scendere e immergermi con loro nell’umidità della notte. La solitudine di Speziale mi rendeva famelica di qualsiasi contatto umano, ma a quattordici anni non avevo il coraggio per certe cose. Sospettavo che fossero i ragazzi della tenuta confinante, anche se li avevo sempre visti da lontano. La nonna li chiamava “quelli della masseria”.»