Questa volta Vittorio Sermonti ha abbandonato Dante e gli amati classici. Per dare ordine ai propri ricordi, per non sfuggire ai propri fantasmi. E’ ciò che accade nel romanzo autobiografico “Se avessero” (Garzanti), attraverso cui scorrono settant’anni di storia, a partire da una mattina di maggio del 1945, quando tre (o quattro) partigiani si presentano col mitra sullo stomaco in un villino zona Fiera di Milano alla caccia d’un ufficiale della Repubblica Sociale (o forse di tre), lo scovano, segue un ampio scambio di vedute, e se ne vanno. Fortunatamente fu un eccidio mancato…, “se avessero”, giustappunto.
Da tale spaccato domestico muovono i ricordi di un fratello quindicenne, affidati agli “intermittenti soprusi della memoria”. Ed ecco, allora, il sangue, la guerra, la farsa, le letture, le scelte politiche di tutt’altro segno da quelle del padre fascista, il teatro, la musica, il calcio, gli amici. Ma nel racconto si insinua continuamente il pensiero che rimanda a quella mattina di maggio, a quell’ipotesi sospesa.
Sermonti, così, prova a fare i conti con se stesso e con la storia, nella consapevolezza – sia chiaro – che “non contiamo niente, perché ognuno conta purtroppo tutto”.
Se avessero sparato a mio fratello, che dire? e nel caso, perché tentare di dirlo? Mi riservo di rispondere quando mi verrà fatto se mai dovesse venirmi fatto. Intanto, visto che un’ipotesi di questo genere mi ossessiona da un pezzo (ossessiona: non esageriamo), vedrò di mettere le mani avanti con una descrizione piuttosto dettagliata del luogo dove la cosa sarebbe potuta succedere, dove poco mancò non succedesse, cioè del vano d’ingresso del villino contrassegnato dal civico 41 di un largo viale in zona Fiera di Milano, largo e viale sebbene detto via — via del Domenichino.
Intanto, ah, ricordarsene dell’ingressino del Domenichino! E non che io non mi ricordi o mi ricordi poco, anzi mi ricordo moltissimo ma in un disordine fazioso e devastato. Forse nemmeno moltissimo: abbastanza. Sapessi ora o avessi mai saputo con decorosa esattezza perché mai tanta faziosità e tanta devastazione (faziosità, devastazione: non esageriamo), avrei scritto sul tema un romanzo storico con i fiocchi sai tu da quanto. In tutti i casi, quella di fare in modo che qualcun altro si metta nei miei panni di allora o mi ci metta io stesso, nel guardaroba dei miei ricordi, mi si prospetta come una fatica spaventosa oltre che verosimilmente inutile.
D’altro canto, mentre ad esempio (mi scuserai l’inciso) esistono scrittori che eccellono nell’elencare mobili e suppellettili d’un dato spazio da raccontare, nei confronti dei quali scrittori non posso che nutrire un doppio rancore, tanto per quel loro imparziale e scrupoloso e virtuoso spirito d’osservazione e catalogazione dell’osservato, quanto perché conoscono con suprema disinvoltura culturale l’epoca di quei mobili e di quelle suppellettili una per una (reggenza, Biedermeier, minoicomiceneo, Luigi e qualcosa, secessione eccetera), il nome del materiale e della gradazione di colore anche in inglese, in latino ecclesiastico e in armeno — mentre, stavo dicendo, loro la sanno così lunga, io no. Pazienza! Anche se non invidio chi mi legge. E è solo il primo esempio che mi è venuto.
Si dirà: documéntati!
Troppo tardi, zu spät, non mi va, mi scoccia, non è la cosa, è quasi il contrario. Preferirei rimettermi agli intermittenti soprusi della memoria. Così questa testimonianza potrebbe valere doppio, sia cioè per il materiale testimoniato, sia per la specifica inattendibilità del testimone.
Tanto premesso, procediamo. La porta d’ingresso per chi guardasse più o meno a nord era certissimamente sulla parete di destra, mentre su quella di sinistra, me lo ricordo così bene che potrei ridisegnartelo invece di star tanto a verbalizzare, c’era un mobiletto appendipanni giallo piatto leggermente liberty, che sotto un festone di glicini e uve in bassorilievo inframetteva tra due ringhierine per parapioggia uno specchio angusto verticale e marezzato d’una imprecisa muffa, nel quale tutti si vedevano magrissimi e sempre abbronzati, senza dire che in natura e con i tempi che correvano fossimo grassi tranne forse la maggiore delle mie tre sorelle (d’ora in avanti P) che più che grassa essere grassa si sentiva, infatti era quella che si sbirciava distrattamente più a lungo nel verdastro dello specchio dimagrante.
[da Se avessero di Vittorio Sermonti]