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Virdimura. Simona Lo Iacono racconta la storia di una delle prime donne medico

“Catania era la più bella delle città. Popolosa. Gloglottante. Colma di ebrei, musulmani, arabi, cristiani. Nessuno parlava una sola lingua, masticavamo un po’ tutti i dialetti. Ci capivamo sorridendo, amando, odiando. Inveendo o pregando il Dio degli altri”. Una città ideale, sul mare, multietnica e aperta, ma qualcosa stava accadendo a turbare la situazione idilliaca. La Sicilia, infatti, sarà poi colpita da un decreto del papa e seguiranno epidemie di colera, tifo, peste…
 
Uscito da poco il nuovo romanzo di Simona Lo Iacono “Virdimura” (Guanda) che racconta la storia di una delle prime donne medico della storia, Virdimura di Catania, figlia di medico, di famiglia ebraica e nata nel 1302, resa orfana a dieci anni per superstizione e antisemitismo e divenuta “dutturissa” delle donne, quindi con forti pregiudizi razziali e di genere, quando alle donne si concedeva di essere streghe per perseguitarle.
 
“Ti costringeranno a portare sulle vesti la rindella, perché si veda che sei figlia di giudeo. Ma tu indossa un solo simbolo: pietà umana, dolore per l'altro”. Prima di lei c’erano state altre donne medico alla scuola salernitana e fra tutte la mitica Trotula, ma Virdimura è la prima a cui sia stata assegnata una patente ufficiale, come risulta dal documento, conservato nell’archivio di Catania, a cui l’autrice si è ispirata.
 
Il libro è da segnalare per la scrittura molto elevata e soprattutto per l’interesse che suscita sugli aspetti storici della medicina e su quelli legati alla cultura ebraica. Forse un po’ troppo sottolineati e ribaditi, ma molto utili per entrare nella realtà dell’epoca. La protagonista narra in prima persona e ci sorprende per la ricostruzione dettagliata di malattie e cure, interventi già molto avanzati trattandosi di un periodo in cui si moriva con estrema facilità, non solo per le malattie e le epidemie, ma spesso in mancanza delle norme basilari d’igiene.
 
Sin dall’inizio emergono delle figure maschili forti e di grande umanità che riescono a coinvolgere il lettore e appassionarlo. “Pur essendo esule, mio padre non volle mai sentirsi straniero e imparò ad abitare ogni parte del mondo. Casa non era un luogo, per lui era una relazione. E ovunque potesse svilupparla, con Dio, con gli uomini, con la natura, con gli animali, edificava camere invisibili. Stanze dove soffermarsi. Edifici che non avevano mura ma nomi da pronunciare, corpi da soccorrere, da curare”. I personaggi di Josef e di suo figlio, il padre della protagonista e la protagonista stessa, donano un senso profondo alla cura e l’arte della medicina intesa come un percorso di ricerca e formazione continua, un’opportunità per avvicinarsi al mondo e agli altri sentendone i bisogni, le fragilità, i dolori, l’unicità.

“Non possedeva nulla dei medici giudei che indossavano brache di fustagno, a cui appendevano la scarsella per contenere le monete. Non portava camicie di canapa, né copricapo conico o di feltro, né mantelli di broccato orlati di pelliccia. Aveva una tunica che arrivava fino ai piedi, una bisaccia da viandante con tasche colme di arnesi chirurgici, vasi di erbe, pomate di cera”. La riflessione è anche sull’oggi dove spesso il malato viene osservato e curato secondo un protocollo che porta più a vedere le singole parti che l’insieme. La cura rischia di seguire canoni lontani da ciò di cui la persona ha più bisogno: ascolto e accudimento. "Ripetevo loro le stesse parole di maestro Uria, e cioè che curare allunga gli anni più che essere curati, e si guarisce solo facendo guarire. Non temete, dicevo. Nell'umano troverete tutto, persino l'eternità".
 
In questo romanzo, che definirei solare, nonostante le avversità e i problemi, si nota il fermento di idee; il flusso di pensieri che precede il Rinascimento, che permette a Pasquale di concludere il progetto dell’ospedale. “E cominciai a pensare a un nuovo tipo di ospedale, in cui aggirarsi non come malati, ma come abitanti di uno stesso luogo – sananti e risanati, coscienti e folli, guaritori e guariti… Lo dissi a Sciabè, e lei restò pensosa, modulando con le mani quel mio edificio scapestrato, in cui nessuno poteva dirsi sano perché noi per prime eravamo ferite o ammalate, in equilibrio tra i precipizi”.
 
Si nota anche una collaborazione fra generi, riconducibile storicamente anche al fatto che le guaritrici ebree non potendo frequentare le università, venivano istruite dai genitori, soprattutto verso quelle competenze mediche di tipo ginecologico. Inoltre, alcuni medici ebrei compivano viaggi di formazione, di apprendimento che permetteva loro la comprensione di culture diverse e una grande apertura, oltre a un profondo senso di spiritualità che probabilmente comunicavano ai figli. “Ero abituata agli improvvisi rovesci, alle epoche transumanti. Sapevo che Dio si fa trovare solo da chi attraversa molte volte la morte”.
 
Una scrittura emozionante, ricca di colori e profumi di piante officinali e fiori per curare. Ogni parola è scelta attentamente in modo da ammaliare il lettore. Ciò che prevale è comunque è la delicata cura dell’altro, nel suo insieme, nel suo tutto. “Aveva fatto quello che aveva detto Josef. Aveva appreso qualcosa da ogni popolo. Aveva custodito tutte le diversità che aveva potuto…Impara da tutti i popoli, aveva detto. Scegli in ognuno di essi qualcosa che ti appartenga per sempre. Non scansare la diversità, non evitare la fatica, non scandalizzarti del peccato. Ama tutte le donne, ma non possederle. Leggi più che puoi, nei libri e sul cielo. Sii visionario, ma concreto. E sognatore, ma senza mai pensare che il sogno sia un di fuggire la realtà. Amala, la realtà, qualunque essa sia. La vedrai meglio se saprai immaginarla”.
 
Per concludere, una lettura intensa che non mi ha deluso, come spesso mi accade ultimamente. Romanzo pieno di fascino, e la lettera lasciata dalla madre a Virdimura tocca vette elevate di struggente bellezza.  “Chi ama ha nostalgia di chi manca”.
 

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