“Bisogna essere sempre ebbri. È l’unico problema, non c’è altro. Inebriarsi senza tregua per non sentire l’orrendo peso del Tempo che vi rompe la schiena, che vi inginocchia al suolo. Ma di che? Di vino, di poesia o di virtù a piacer vostro. Ma ubriacatevi”. Quando Baudelaire scrisse i poemetti in prosa, pubblicati postumi, nel 1869, col titolo di “Lo Spleen di Parigi”, e da cui sono tratte queste poche righe, era ormai un uomo malato, perseguitato dai creditori e, soprattutto, convinto che tra il mondo e il proprio io si fosse aperto uno iato incolmabile. La celebrazione del progresso, la trasformazione di Parigi, dopo i lavori voluti da Napoleone III e diretti da Haussmann, nella manifestazione più emblematica della modernità, le insegne pubblicitarie, la società dell’utile, il suffragio universale diretto, finiscono col convertire sempre di più la malinconia di Baudelaire in un movimento di fuga dal “qui e ora”. Dal momento che la realtà appare impermeabile a ogni mutamento e del tutto aliena da qualsiasi forma di discorso artistico – a dominare sono il guadagno e l’economicità – la sola possibilità di salvezza viene individuata dallo scrittore francese nell’oblio di quella stessa realtà. Ma come procurarsi un tale oblio? Attraverso l’ebbrezza originata dal vino, dalla poesia, dalla virtù, oltre cha dal sogno che conduce lontano dal “nero oceano dell’immonda città”.
Mi è tornato in mente questo poemetto baudelairiano – una delle tante perle che lo scrigno dello Spleen di Parigi racchiude – leggendo gli ultimi dati relativi al consumo di alcol da parte dei giovani italiani, ragazzi e ragazze senza alcuna distinzione. Nel giro di un decennio il consumo di alcolici e superalcolici, nella fascia di età compresa tra i quattordici e i diciassette anni, è raddoppiato. Il 13% dei quindicenni dichiara di avere preso almeno una ventina di sbronze. Un ragazzo su cinque e una ragazza su sei sono considerati consumatori a rischio, per una cifra complessiva di poco inferiore alle ottocentomila unità. Infine, nella fascia tra i quindici e i ventinove anni, sono diciassette mila i decessi ascrivibili all’alcol, al punto che gli incidenti stradali alcol-correlati costituiscono la prima causa di morte per i giovani.
Nel corso degli ultimi anni il modo di bere ha subito una vistosa trasformazione. I giovani italiani, infatti, non consumano più il vino quotidianamente, durante i pasti, secondo il modello mediterraneo, ma preferiscono assumere bevande alcoliche fuori pasto, magari al sabato sera, in discoteca come in un bar. Ciò che chiedono al bere, infatti, non è il piacere che scaturisce dal mescolarsi dei sapori del cibo con quelli del vino o del liquore (abbinamento che è un’arte), ma il piacere che deriva dal sentire allentare, almeno per qualche ora, la presa inibente – così insostenibile a quell’età – della timidezza, della vergogna, della paura. Il bere, in sostanza, è vissuto non più come un fattore di socializzazione (si beve per stare insieme, così come si gioca per stare insieme, si fa un viaggio per stare insieme, si assiste a un concerto per stare insieme), bensì come un’esperienza che genera sensazioni di socializzazione (si sta insieme per bere). Sotto gli effetti dell’alcol, infatti, si parla di più, ci si apre agli altri, si è più disinvolti, ci si sente parte a pieno titolo del gruppo. Ma, al pari di tutte le sensazioni, anche queste possiedono un respiro breve: passata la sbornia, si torna a fare i conti con un’esistenza, la propria, che, per quanto ancora breve, già ha sperimentato l’assenza di valori di riferimento (al di fuori dei soldi) e la mancanza di crescita emotiva, mancanza di crescita che chiama in causa, pesantemente, sia la famiglia che la scuola.
D’altra parte, quando si ricerca un piacere anestetico, un piacere, cioè, che non comporta una maggiore, ma una minore partecipazione alla vita, non è affatto importante cosa si beve, ma quanto si beve. Occorre raggiungere lo sballo, tendere a quella soglia, cioè, dove le parole si fanno confuse e sconnesse, la luce dà noia, forte si fa la percezione del crescente calore sulla pelle, il cuore batte a un ritmo insolitamente veloce, la testa pare scoppiare, i ricordi svaniscono, restare in piedi è difficilissimo e, a volte, un’improvvisa tristezza s’insinua nell’anima. E allora non è rilevante cosa viene versato nel bicchiere, non è rilevante se sia buono o cattivo. La sola cosa che veramente conta è non perdere di vista l’obiettivo, vale a dire lo sballo, la perdita di controllo, l’approssimarsi al limite, senza, però, varcarlo, del coma etilico, dello stato di incoscienza complessivo.
Per i giovani di questo terzo millennio, il bere non ha più niente di trasgressivo – nei confronti dell’ordine costituito, nei confronti dell’imperante etica del guadagno –, non viene, cioè, vissuto come contestazione di un falso progresso, del tutto insensibile ai valori e agli uomini che, nel suo cammino, lascia dietro di sé. Non è la scelta autodistruttiva di chi intenda ricordare alle cosiddette persone normali che la razionalità calcolatrice e la produttività non esauriscono (non esauriranno mai) tutte le possibilità dell’essere umano. E’ semplicemente un fenomeno alla moda, fatto proprio e non meditato, imitato e non indagato – nelle sue cause, nelle sue conseguenze – perfettamente organico alla nostra società dei consumi, la quale neppure riesce più a immaginare che ci si possa (e ci si debba) ubriacare, oltre che di vino, anche di “poesia o di virtù”.