Ancora il cinema pone sulla ribalta un libro. È il caso del memoir “Sono ancora qui” dello scrittore brasiliano Marcelo Rubens Paiva, dal quale è stato tratto l’omonimo film diretto da Walter Salles, tre candidature agli Oscar, già premiato alla Mostra di Venezia per la migliore sceneggiatura, unanimi consensi di pubblico e critica. L’uscita del libro (“Ainda estou aqui”) risale al 2015 e adesso possiamo leggerlo in italiano, edito da La Nuova Frontiera con la traduzione di Marta Silvetti. Una vicenda di forte impatto emotivo.
Siamo a Rio de Janeiro nel gennaio 1971, Marcelo (l’autore del libro) ha undici anni quando il padre Rubens, ex deputato laburista, viene sequestrato dagli agenti della dittatura militare. Da allora più niente si saprà di lui, inghiottito nel gorgo dei desaparecidos. Sulla bella casa vista mare della famiglia Paiva, piena di vita, libri, positività, cala l’angoscia. A sobbarcarsi il dolore, ma senza darlo a vedere, è soprattutto Eunice, moglie di Rubens, rimasta sola a crescere cinque figli.
È lei la figura che giganteggia in tutta questa storia. Riprende a studiare, si laurea in giurisprudenza, diventa avvocato a sostegno dei diritti civili e della democrazia, lotta per ottenere almeno un certificato che attesti la morte di suo marito e dunque il riconoscimento di una verità che va ben oltre il caso singolo. Eunice, fin dal giorno della sparizione di Rubens, non chiede pietà, ma giustizia.
Significativo è quanto scrive il figlio in uno dei passi più intensi del libro: “Per anni i fotografi ci avrebbero voluti tristi nelle foto. Abbiamo combattuto la nostra guerra fredda contro la pietas della stampa. […] Eravamo ‘la famiglia vittima della dittatura’. Anche se preferiamo la dicitura ‘una delle tante famiglie vittime delle tante dittature’. Non ci saremmo resi ridicoli apparendo tristi in foto. Il nemico non ci avrebbe abbattuto… La famiglia Rubens Paiva non è vittima della dittatura, è il Paese a esserlo. Il crimine c’è stato contro l’umanità, non contro Rubens Paiva. Dobbiamo essere sani e abbronzati per la controffensiva”.
È così che mamma Eunice trasforma il dolore in istanza politica. Ed ecco rivelarsi, nelle pagine di Marcelo Paiva, la tempra, l’intelligenza di questa donna che dopo avere speso anni affinché non venisse rimossa la memoria di un dolore personale e collettivo, avverte svanire i propri ricordi nelle nebbie dell’Alzheimer.
Non è un caso che il racconto del figlio muova dall’incipiente malattia della madre. Come a prendere in consegna la memoria che in lei è prossima a confondersi “sotto un diluvio di immagini, sinapsi, input, ricordi, che le avrebbero inondato il cervello, che avrebbero reso ignote le cose note”. Ecco le ragioni di un libro che testimonia, tutto insieme, amore, forza d’animo, impegno civile.
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30 gennaio 2008. Scendemmo dalla metro alla stazione Liberdade. C’era il sole, ma ricordo dall’odore che stava per piovere. Forse ogni abitante di San Paolo sa individuare con precisione l’odore della pioggia imminente. Lo sente nell’aria che il mondo può crollare e tutto può cambiare. Sa che con la pioggia si scatenerà il caos. E che, malgrado tutti i nostri sforzi, è ancora la natura ad avere la meglio sulla vita quotidiana del più grande centro urbano dell’America del Sud.
San Paolo è una delle pochissime città in cui ci sono segnali stradali con su scritto “Area soggetta a inondazioni”, a lettere rosse su sfondo blu e due grandi nuvole con enormi gocce, cartelli che non sono previsti dal Codice della Strada brasiliano. Come se facessero presente agli automobilisti che percorrono rua Diana, a Perdizes, che dove c’è il cartello, all’angolo con rua Turiassu – a volte scritto Turiaçu –, in caso di temporale la strada di fronte si trasformerà in un fiume torrenziale, e una forte corrente scenderà lungo la carreggiata nello stesso senso delle macchine, non contromano, come se anch’essa obbedisse ai segnali stradali, e ogni estate si allagherà.
La memoria è una magia sconosciuta. Un trucco della vita. I ricordi non si accumulano gli uni sugli altri, ma gli uni accanto agli altri. Un ricordo recente non viene recuperato prima del millesimo. Si mescolano. Mia madre, affetta da Alzheimer, non ricorda cosa ha mangiato a colazione. Mia madre, affetta da Alzheimer, vede mio figlio di un anno, che è il mio ritratto, e lo riconosce. Non lo scambia per me, ma lo chiama bimbo, il mio bimbo. E dice sempre:
«È la cosa più bella che ci sia.»
E a volte si confonde e dice:
«È lei la cosa più bella che ci sia.»
Quel “lei” potrebbe riferirsi alla “cosa”. Oppure, per mia madre, che ha avuto quattro figlie, tutti i bambini sono una bambina. E protesta molto quando dobbiamo andarcene.
Centro storico di San Paolo. Scendemmo dalla metro alla stazione Liberdade. Mia madre, mia sorella Veroca e io. Attraversammo largo Sete de Setembro. Ricordo l’odore di pioggia imminente e il trambusto intorno al tribunale. Lei aveva già percorso quel tragitto centinaia di volte. Ma, se l’avessimo lasciata lì, da sola, in quel pomeriggio afoso, si sarebbe bloccata e non avrebbe saputo come tornare indietro. Si sarebbe persa in un ragionamento circolare, sotto un diluvio di immagini, sinapsi, input, ricordi, che le avrebbero inondato il cervello, che avrebbero reso ignote le cose note, sfociando in una sola domanda:
«Che ci faccio qui?»
O meglio:
«Cosa sono venuta a fare qui?»
E forse:
«Dov’è qui?»
Non trovando risposta, dato che la tempesta cerebrale impedisce la chiarezza di pensiero, avrebbe pronunciato la frase che ha caratterizzato la fase iniziale dell’Alzheimer:
«Voglio andare via.»
Oppure:
«Voglio andare a casa.»
A volte sorridente. Altre volte arrabbiata. Sempre imprevedibile.
Entrammo nel tribunale João Mendes. Lei guardava il posto come se le fosse familiare e sorrideva. Si godeva la trasferta.
[…]
Ha seguito il divorzio di coppie di amici, inventariato beni di famiglie amiche, è stata avvocato per fabbriche e aziende, per gli indios, nel divorzio del cantante Ronnie Von, che faceva faville quando si presentava nel suo ufficio cantando:
«Meu bem…»
Tra le poche specialiste in diritto indigeno, è stata l’avvocato della fondazione di Gilberto Gil e l’avvocato di Sting in Brasile, che donava soldi ai caiapós e che la chiamava a casa, con il suo inconfondibile accento inglese:
«Eunice Paiva, perrr fa-vvvore.»
«Mamma! C’è di nuovo Sting al telefono! Non starci troppo che aspetto una chiamata!»
È stata l’avvocato di gente illustre e sconosciuta, consulente del governo, della Banca Mondiale, dell’onu. Dov’è andata a finire tutta questa conoscenza?
[…]
Ci recammo alla Quinta sezione del Tribunale della Famiglia del João Mendes, dove incontrammo le nostre due legali, scelte da mia madre e con le quali si era già vista in un ufficio di avenida Paulista per dare loro consigli su come procedere, quando ancora era lucida.
Aspettiamo in corridoio.
Detenuti ammanettati sono di spalle, il viso schiacciato contro la parete, sempre scortati. Su quelle panche, imputati, testimoni e querelanti sono infastiditi dallo stesso caldo, dalla consapevolezza che sta per piovere, che usciremo da quel palazzo e il caos si sarà scatenato in città. Quasi tutti in silenzio, un religioso silenzio, sì, dottore, no, dottore. L’ho già detto?
La cosa curiosa è che, all’interno delle sezioni, si discute animatamente. Ma fuori, nei corridoi, nella hall, negli ascensori, si parla poco. Quando si parla, si parla sottovoce.
Non chiese mai che cosa stessimo facendo, né di andare via. In quella fase, “fare una passeggiata”, vedere cose e persone, poteva renderla felice. E forse lì si sentiva a suo agio. Nella sua memoria restavano i tanti momenti in cui aveva aspettato su quelle panche. Mia madre doveva sentirsi a casa, per questo non si era lamentata. C’era ancora un qualche senso del presente, e dunque di memoria. Ancora. E forse non abbiamo solo un’unica memoria.
Davanti a ogni sezione, un tavolino con una o un segretario. Quando ci chiamarono, la guardai. Andiamo? Tocca a noi. Lei guardò Veroca. Si fidava di entrambi, non solo di me. Si fidava della figlia maggiore e dell’unico figlio maschio. Non si fidava ciecamente, non si è mai fidata ciecamente di nessuno. Era un avvocato. Passava in rassegna ogni nostra decisione per assicurarsi che stessimo facendo la cosa giusta. Sapeva che ora eravamo noi due al comando. E quando firmava un documento, anche con l’Alzheimer, lo controllava cinque volte. Se non era d’accordo, non lo firmava. Soppesava ogni decisione presa dalle avvocate per assicurarsi che stessero facendo la cosa giusta. Sapeva come sarebbe stato il suo futuro.
Sapeva che la demenza era una questione non solo medica, ma anche legale. Sapeva che c’erano leggi che la proteggevano e tutelavano il patrimonio (e i patrimoni) familiare/i. Credeva nella Giustizia. Era orgogliosa di far parte di quel mondo. Mi diceva sempre:
«Esiste per difendere i più deboli.»
La chiamarono. Lei obbedì, rassegnata. Entrammo nella stanza. Il giudice di famiglia era dietro al banco sopra una pedana. Ci sedemmo ai posti indicati dal cancelliere. Un ritratto enorme e mediocre di un soldato in divisa era l’unica immagine appesa alla parete, davanti al giudice. Per rompere il ghiaccio, osservai che sarebbe stato impossibile per chiunque combattere con quell’uniforme ridicola, per non parlare del pesante elmetto. Lui mi interruppe, disse che era suo padre, che era stato un poliziotto della Forza Pubblica, l’ex Polizia Militare, un esempio di carattere. E che quella era l’uniforme di gala. Non potevo tornare indietro nel tempo. Il giudice lesse il fascicolo ad alta voce, saltò alcuni paragrafi, ci guardò tutti. Si rivolse a mia madre.
«Vedo che abbiamo una collega qui, una dottoressa in Legge.»
«Sì, sono un avvocato. In pensione.»
«Lei sa perché si trova qui?»
«Perché sono vecchia e ho bisogno di essere assistita» rispose lei, con la sincerità e la logica che l’hanno sempre contraddistinta.
Ci trovavamo nella Quinta sezione del Tribunale della Famiglia del João Mendes perché lei era vecchia. Era questa la grande ironia. Proprio lei che era specializzata nell’interdizione dei genitori dei nostri amici, da tutti considerata un avvocato affidabile, alle ore 14.35 stava per essere interdetta. Aveva settantasette anni. Neanche tanto vecchia. Aveva interdetto tragicamente dei vecchi conoscenti. Sapeva, passo a passo, come fare.