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Sandro Campani, il miele e l’amaro della vita

Bella scrittura quella di Sandro Campani nel suo ultimo romanzo “Il giro del miele”. Parole scarne ma dense, scelte accuratamente per raccontare una storia fuori dal mondo, in un paese dell’Appennino dove Davide, un ragazzone semplice, fa un lavoro altrettanto semplice: consegna il miele a domicilio. Ma la vita può intricarsi anche per le persone semplici. Come succede a Davide che perde il lavoro, l’amore della sua vita (Silvia), la mitezza che lo connotava. Per diventare un bevitore inquieto, tormentato e acceso di rabbia. C’è poi il vecchio Giampiero, che era stato aiutante del padre di Davide e che ha una mano bruciata nell’incendio della falegnameria dove aveva lavorato. In una notte di vento, abitata dal buio e da una lince che c’è ma non si vede, sarà proprio Giampiero (lui che con la sua amata Ida figli non ha potuto avere) a raccogliere, alla maniera di un padre, la lunga confessione di Davide. Una storia tutta dentro le cose della vita, soprattutto quelle taciute, inconfessabili, che ronzano instancabili dentro i silenzi. Come ronzano le api in quella notte di scurità e rivelazioni. Mentre due uomini, che potrebbero essere un padre e un figlio, si svelano i loro fallimenti, i mancati amori, la perduta felicità. Quanto poteva essere e non è stato. Quanto, forse, è ancora possibile.
 
[…] Ho aperto: era Davide. Grandone, alto com’è sempre stato, tanto che cammina preparato a chinarsi per passare dalle porte. E’ proprio dalla stazza che l’ho riconosciuto, perché la luce esterna era strinata e lui non ha parlato, inizialmente: ho ravvisato un uomo che nel momento in cui aprivo si tirava indietro, al buio; ero sorpreso perché non avrei mai detto di vedermelo ritornare all’uscio, ma un attimo dopo ho pensato (ed è stato peggio): era destino che arrivasse, prima o poi. Gli occhi ha dovuto abbassarli, per riuscire a guardare me in faccia. Non lo faceva da un bel po’ di anni. Non ho avvertito odore d’alcol, e ho avuto sollievo nel vederlo nuovamente in forma, sbarbato, i capelli castani ordinati in un’onda, da bimbo biondissimi e adesso, rispetto all’ultima volta, stempiati alla scriminatura. Lui se li copriva dal vento con un braccio, in modo buffo, come un ragazzone che uscisse per ballare. Aveva addosso i suoi anfibi da buttafuori, e un maglione di lana infeltrito, di quelli per cui la Silvia un tempo lo prendeva in giro e che però continuava a regalargli, con i fiocchi di neve, i cervi e le stelline. Ma lì sulla porta, per me, sono stati i suoi occhi il problema, perché aveva due occhi impressionanti, come infiammati e soggiogati da uno spirito che li avesse invasi e li stesse facendo ammattire.
– Fammi entrare, Giampiero, – mi ha detto, e quindi io l’ho fatto entrare.
Uno dei ginepri, comunque, era caduto davvero. Ho chiuso la porta: – Vento impestato.
– Chi è? – ha detto da su ancora l’Ida.
– Sono io, – ha risposto Davide. Lui non ha bisogno di vociare, ha un timbro che trapassa i muri.
– Oh, Davide… – le ho risentito quel tono materno che l’Ida usava, parlando di lui, quando rientrava dall’asilo, dopo averlo accompagnato sul pulmino, lei maestra e lui autista, e mi raccontava di come Davide era bravo coi bambini. Faceva anche il giro delle elementari. Guidando, ascoltava il liscio su Nuova Radio Centrale, e i bambini si davano di gomito pe i doppi sensi dei testi. Quando toccava ralle per colpa di un trattore con un carro o una botte di letame, Davide aspettava il tornante favorevole per lasciare la strada e andava giù per i campi, in mezzo ai cespugli, coi sassi che schizzavano e l’erba che frustava le portiere e l’Ida che rideva: “Ma Davide, ma cosa fa?” C’era una convenzione fra di loro sul pulmino, per cui vicendevolmente si davano del “lei”. Superato il carro, Davide tornava sull’asfalto e i bambini incitavano e strillavano, si voltavano indietro a salutare: “Ciao Zaccaria!”, perché i carri del letame hanno quasi tutti marca Zaccaria.

[da Il giro del miele di Sandro Campani, Einaudi, 2017]     
 

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