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Rilke e la fragilità dell’esistere

Per chi si rechi a Trieste è irrinunciabile la visita al castello di Duino, con la sua mole a strapiombo sul mare e con la memoria in esso racchiusa del poeta Rainer Maria Rilke. Era il 1912 quando il poeta praghese soggiornò nel maniero dei duchi Della Torre-Tasso, e lì dette inizio alla scrittura delle “Elegie duinesi” (vi compose la prima e la seconda), ultima e grande opera poetica in cui il tema ricorrente è l’inconsistenza della vita umana. Ecco, allora, la vita e la morte colti nella loro continua metamorfosi, l’incerto confine tra ‘al di qua’ e ‘al di là’ che vede l’uomo trovarsi in una posizione mediana, la bellezza che il tempo deteriora, l’arte che prova a salvare la durevolezza dello spirito. Nella seconda elegia è il tema dell’amore di coppia, dell’eros, a farsi emblema di questa fragilità. Con toni di teso lirismo e con passaggi talvolta oscuri, si lamenta quanto sia destinato a dissolversi anche ciò che sembrerebbe eterno, indistruttibile: “Così vi promettete / quasi l’eterno dell’amplesso”, ma “Se voi uno alla bocca / dell’altro vi sollevate ed accostate –; bevanda / a bevanda: oh come poi all’atto / sfugge stranamente chi beve.”
 
 
[…] Amanti, voi l’un nell’altro contenti,
io vi chiedo di noi. Voi vi prendete. Avete prove?
Guardate, mi accade che le mani l’un l’altra
si riconoscono, oppure che il mio usato
volto in esse si protegga. Questo
un po’ mi commuove. Però chi mai oserebbe
solo per questo essere? Ma voi che nell’incanto
l’uno dell’altro vi accrescete, finché l’altro
sopraffatto vi implora: non più –; voi che sotto le mani
vi divenite più turgidi come vendemmie feconde;
che talvolta svanite sol perché l’altro prevale
del tutto: a voi chiedo di noi. Io so,
voi vi sfiorate beati, perché la carezza trattiene,
perché quel dove non sparisce che voi,
teneri, coprite: perché là sotto sentite
il puro perdurare. Così vi promettete
quasi l’eterno dell’amplesso. E tuttavia,
voi, vinti i primi sguardi d’orrore e la struggente
attesa alla finestra e il primo
camminare congiunti, una volta, in giardino:
amanti, lo siete ancora? Se voi uno alla bocca
dell’altro vi sollevate ed accostate –; bevanda
a bevanda: oh come poi all’atto
sfugge stranamente chi beve.
 
Non vi ha sorpreso sulle attiche stele
la cautela del gesto umano? Non era
amore e congedo così leggiero
sulle spalle posato come fatto
d’altra sostanza che da noi? Rammentate
le mani, come senza peso riposano
sebbene nei torsi è la forza. Così
quegli artefici sapevano: fin qui
siamo noi, è nostro questo, di così sfiorarci;
più forte battono gli Dei su di noi, ma questo
è cosa degli Dei.
 
Oh, se trovassimo anche noi un qualcosa di umano
discreto, esile, una nostra
striscia di fertile terra, tra fiume e roccia.
Perché il nostro cuore ci valica
ancora sempre come loro. E più
non possiamo seguirlo con lo sguardo
in immagini volte a placarlo, neppure
in corpi divini nei quali, più grande, si modera.
 
[dalla “Seconda elegia” delle Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke, traduzione di Michele Ranchetti e Jutta Leskien, Feltrinelli, 2006]  

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