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Rileggere Leslie P. Hartley e ritrovarsi nell’Inghilterra del 1900

“Il passato è una terra straniera; fanno le cose in modo diverso laggiù”. È uno degli incipit più folgoranti della letteratura, quello con cui Leslie Poles Hartley fa muovere la vicenda raccontata in “L’età incerta”. Romanzo pubblicato nel 1953 che subito riscosse l’attenzione di pubblico e critica per come l’autore avesse saputo restituire uno spaccato d’epoca (la fine dell’età vittoriana, l’inizio del XX secolo) e certi temi – questi universali e senza tempo – quali le inquietudini adolescenziali, il disincanto della maturità, il tempo andato e la sua memoria. Il romanzo è stato ora ripubblicato da Neri Pozza. Protagonista della storia è Leo Colston, ormai uomo maturo, che ritrova un suo diario giovanile del 1900, di quando – lui tredicenne, di modeste condizioni sociali – era stato ospite di un compagno di scuola, Marcus Maudsley, figlio di una rinomata famiglia residente a Brandham Hall, grandiosa dimora georgiana. Un mondo verso il quale Leo si sente piuttosto estraneo, finché non resta catturato dalla bellezza di Marian Maudsley, sorella di Marcus. La ragazza, promessa sposa al visconte Hugh Trimingham, al raffinatissimo Lord preferisce, però, il rude Ted Burgess, fattore di Brandham Hall, con cui ha una relazione clandestina. L’adolescente Leo, frastornato e soggiogato da Marian, si presta ingenuamente a svolgere il ruolo di messo recapitando i messaggi che i due amanti si scambiano. Entra, così, in un gioco molto pericoloso, considerati i tabù dell’epoca. Capisce presto la natura sessuale di quei messaggi e quale rischi stiano correndo tutti, tant’è che a un certo punto inizia a modificare il contenuto dei messaggi di cui è l'intermediario (go-between). Cerca di cavarsi fuori dalla situazione, ma non ci riesce a causa della forte pressione psicologica di Marian. Esplode lo scandalo e le conseguenze saranno tragiche: Ted, l’amante, si suicida. Un trauma che segna Leo per tutta la vita e che, giusto con il ritrovamento del diario, cerca di rielaborare attraverso il filtro del tempo e del proprio vissuto (“Il mio segreto – la spiegazione di ciò che sono – giace lì. Mi prendo molto sul serio, certo. Importa a qualcuno chi sono adesso o chi ero allora? Ma ogni uomo è importante per se stesso, prima o poi…”). Il romanzo di Hartley è libro immancabile sugli scaffali dei cultori di letteratura inglese novecentesca. Interessante è, infatti, la rappresentazione di quella società chiusa e classista, percorsa dal più totale conformismo; nonché la riproposizione del conflitto che ad ogni epoca può nascere tra ragioni del cuore e condizionamenti sociali.
 
***
 
Il passato è una terra straniera; fanno le cose in modo diverso lì.
Ho trovato il diario sul fondo della scatola rossa di cartone, piuttosto ammaccata, dove da ragazzo tenevo i miei colletti di Eton. Qualcuno, forse mia madre, l’aveva riempita di tesori che risalivano a quel tempo. C’erano due scheletri di ricci di mare, due calamite arrugginite, una grande e una piccola, che avevano perso il loro magnetismo; negativi arrotolati a una bobina; mozziconi di ceralacca; un piccolo lucchetto a combinazione con tre file di lettere; un pezzo di saia pregiata e uno o due oggetti indefinibili che non avrei nemmeno saputo dire a cosa servissero. Le reliquie non erano esattamente sporche ma non erano nemmeno pulite; avevano la patina del tempo: mentre le tenevo in mano per la prima volta dopo cinquant’anni, mi assalì il ricordo, tenue come la forza delle calamite, ma tuttavia chiaro, di quel che ciascuna aveva significato per me. Tra noi stava accadendo qualcosa: il piacere intimo del riconoscimento, il brivido quasi mistico di averle possedute un tempo: mi vergognavo di provare quelle sensazioni a sessant’anni suonati.
Era come un appello al contrario: gli abitanti del passato pronunciavano il loro nome, e io rispondevo: «Presente!» Solo il diario si rifiutava di rivelare la sua identità.
La mia prima impressione fu che qualcuno avesse portato un regalo da un viaggio all’estero. La forma, le parole impresse, il cuoio molle e rossastro arricciato agli angoli gli davano un’aria straniera. Aveva i bordi dorati, e di tutti i reperti questo era l’unico che avrebbe potuto essere costoso. Dovevo averlo custodito come un tesoro, ma allora perché non riuscivo a metterlo a fuoco?
Non volevo toccarlo, forse perché pensavo che mi sfidasse: ero fiero della mia memoria e non sopportavo quando qualcuno mi dava dei suggerimenti, per questo stavo seduto a fissare il diario come se fosse lo spazio vuoto di un cruciverba. Ancora buio. All’improvviso cominciai a tastare la serratura a combinazione, perché ricordavo che a scuola riuscivo sempre ad aprirla soltanto sfiorandola, anche se l’aveva chiusa qualcun altro. Era uno dei miei pezzi forti, e quando per la prima volta c’ero riuscito, avevo strappato anche qualche applauso, dicendo che per farlo ero entrato in trance; non era del tutto falso, perché avevo svuotato la mente e lasciato che le mie dita vagassero senza direzione. Per aumentare l’effetto chiudevo gli occhi e oscillavo leggermente avanti e indietro finché lo sforzo di affievolire la coscienza mi spossava; istintivamente stavo ripetendo gli stessi gesti, come se mi trovassi davanti a un pubblico. Dopo qualche istante udii un leggero clic e sentii il lucchetto aprirsi; nello stesso momento, come se la mia mente entrasse in empatia con l’oggetto, ebbi la folgorante rivelazione del segreto del diario.
Ma neanche allora volli toccarlo; anzi, la mia ritrosia cresceva, perché adesso sapevo la ragione per cui non potevo fidarmi di lui. Il mio sguardo vagava e mi sembrava che ogni oggetto della stanza esalasse il potere snervante del diario e trasmettesse il suo messaggio di delusione e sconfitta. E, come se non fosse abbastanza, le voci mi rimproveravano di non aver avuto il coraggio di sconfiggerle. Sottoposto a questo duplice assalto, osservavo le buste gonfie davanti a me, la pila di carte legate con il nastro rosso… Mi ero ripromesso di mettervi ordine nelle serate d’inverno, e la scatola di cartone rossa era in cima alla lista; sentivo un misto amaro di autocommiserazione e rimprovero e che, se non fosse stato per il diario, o per ciò che il diario significava, tutto sarebbe stato diverso. Non sarei stato lì, seduto in quella stanza tetra e senza colori, dove le tende non erano nemmeno state tirate per nascondere la pioggia fredda che batteva contro le finestre, a contemplare l’accumulo del passato e lo sforzo necessario per farlo riemergere. Avrei dovuto trovarmi in un’altra stanza, illuminata dall’arcobaleno, a guardare non il passato ma il futuro: e non avrei dovuto essere solo.
Questo dissi a me stesso, e con un atto di volontà, non di desiderio, come la maggior parte dei miei atti, presi il diario dalla scatola e lo aprii.
Diario
per l’anno
1900
 
diceva, in una scrittura chiara, diversa da quella di oggi, e attorno all’anno annunciato con tanta fiducia, il primo anno del secolo, alato di speranza, si raggruppavano i segni dello Zodiaco; ciascuno a suo modo suggeriva una pienezza di vita potente e gloriosa, sebbene di una gloria diversa per ciascuno di essi. Ricordavo perfettamente le loro figure e i loro gesti; e ricordavo anche, sebbene non avesse più potere su di me, la magia di cui allora erano investiti, e il senso di vibrante promessa che esprimevano, le creature umili non meno di quelle elevate.
I Pesci guizzavano gioiosamente, come se non esistessero reti e ami; il Cancro aveva una luce nello sguardo, come se fosse ben consapevole del suo strano aspetto granchiesco, e tuttavia godesse dello scherzo; perfino lo Scorpione brandiva le sue terribili pinze con aria araldica e allegra, come se le sue mortali intenzioni fossero solo leggenda. L’Ariete, il Toro e il Leone erano ciò che tutti noi pensavamo di poter diventare, l’epitome della mascolinità imperiosa. Così: nobili, incuranti, autosufficienti, governavano i mesi con l’autorità di un sovrano. Quanto alla Vergine, l’unica figura distintamente femminile della galassia, non so dire esattamente cosa significasse per me. Era vestita solo delle ampie volute dei suoi lunghi capelli; e dubito che le autorità scolastiche, se avessero saputo, avrebbero approvato le ore passate con lei, sebbene immagino fossero abbastanza innocenti. Lei per me era la chiave dell’intero schema, il climax, la pietra angolare, la dea… La mia immaginazione allora era appassionatamente gerarchica: consideravo le cose secondo una scala ascendente, cerchio su cerchio, strato su strato, e l’annuale, meccanica rivoluzione dei mesi non era affatto d’intralcio a questa concezione. Sapevo che l’anno doveva ritornare all’inverno e poi cominciare di nuovo, ma la compagnia dello Zodiaco non era soggetta a queste restrizioni: si librava verso l’infinito in una spirale ascendente.
Espansione e ascensione, come il diffondersi di un vapore divino, che io consideravo il principio regolatore della mia vita, e lo attribuivo al nuovo secolo. L’anno 1900 aveva un’attrattiva quasi mistica per me; non vedevo l’ora che arrivasse. «Novecento… Novecento…» salmodiavo rapito tra me e me; e mentre il vecchio secolo si avviava alla conclusione, cominciavo a domandarmi se sarei vissuto per vedere il successivo. Ne avevo motivo: ero stato malato e avevo una certa familiarità con l’idea della morte, ma più grande ancora era la paura di perdere qualcosa di infinitamente prezioso, l’alba dell’Età dell’Oro. Perché pensavo che questo sarebbe stato il nuovo secolo: il mondo intero avrebbe realizzato le speranze che nutrivo per me stesso.
 
[da L’età incerta di Leslie P. Hartley, trad. di Marilena Renda, Neri Pozza, 2020]  

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