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Quando il corpo comunica più delle parole. I giovani e l’ansia di leggerezza

Li vedo nel cortile di scuola, coi capelli colorati e i tatuaggi che fanno capolino tra canottiere, magliette, pantaloni a vita bassa. Alcuni esibiscono orecchini e pendenti, altri piercing al naso, al labbro, all’ombelico. Sono gli adolescenti del terzo millennio. Sono – agli occhi di molti adulti – gli omologati, i superficiali, i disimpegnati. Sono quelli che seguono la moda, che prestano ascolto alle sollecitazioni del mercato e alle suggestioni della pubblicità. Il tutto in maniera acritica. Costituiscono una tribù che occupa un territorio che coincide pressoché col perimetro del mondo. Miami e Roma. Oslo e Parigi. Londra e Mosca. Parlano lo stesso linguaggio, povero e osceno, abitano il virtuale, non sanno aspettare, non si attendono più niente dal domani. Generazione dell’inesperienza e della velocità. Fast is good.

A me piace fermarmi a parlare con questi millennials. Alcuni sono miei alunni, altri studenti della scuola dove insegno, altri ancora amici dei miei figli. Tutti mi procurano allegria. Rendono tollerabile lo spleen che a volte s’impossessa di me, quella sensazione di avere “più ricordi, dentro,” – l’inarrivabile Baudelaire – “che se avessi mille anni”. Il loro desiderio, in fondo, credo che sia proprio questo, che qualcuno li ascolti, che qualcuno soprattutto li prenda sul serio. A prenderli sul serio, infatti, è rimasto solo il mercato, il quale, come ha scritto Stefano Laffi nella “Congiura contro i giovani”, “ne fa l’icona del consumo, perché intuisce che l’età dell’eros e delle passioni è una formidabile macchina”.  Per loro, per i nostri ragazzi, il verde, il rosso, il rosa, l’azzurro dei capelli altro non sono che un modo di comunicare a chi – genitori, insegnanti, conoscenti – di parole è sempre stato avaro, perché non aveva tempo, perché c’era un programma da svolgere, perché “io i ragazzi di oggi non riesco proprio a capirli”. E così è andata a finire che i grandi, assieme alla voglia di parlare, abbiano smarrito anche la capacità di ascoltare e che i giovani abbiano compreso, con rabbia e rassegnazione, che non possono più affidare al linguaggio verbale il loro bisogno di riconoscimento, di considerazione, di visibilità. Allora hanno cominciato a esprimersi sempre di più attraverso il corpo.

Nei loro tatuaggi (disegno, simbolo, frase) c’è più desiderio di autenticità che cedimento a un fenomeno di costume, che in Italia muove un giro d’affari da duecento milioni di euro l’anno, trascurando il sommerso. Una data legata a un ricordo, un aforisma, il verso di una canzone, un’unica parola, preferibilmente in lingua inglese (“Believe”, “Faith”, “Proud”), il disegno di un colibrì, del mappamondo, di un diamante, di una stella, del simbolo dell’infinito, di una freccia, di un fiore, sono il resoconto di un viaggio e sono l’apertura di una finestra. Da un lato, infatti, c’è l’immersione nelle profondità del proprio io, laddove è possibile per l’adolescente rinvenire il valore, l’aspirazione, il significato capace di dare un po’ di stabilità – forse una direzione – a una personalità ancora in via di costruzione. Viaggio mentale, dunque, viaggio emotivo, viaggio che, in ogni caso, allontana il ragazzo dalla superficialità di un’esistenza troppo spesso guidata dall’idea del “così fan tutti” e lo conduce al cospetto di ciò che lui essenzialmente, fondamentalmente, autenticamente è. Dall’altro lato, invece, c’è la disperata volontà – insopprimibile bisogno dell’anima – di mantenere vivo il dialogo con gli altri, di riattivarlo, specie con coloro che continuano a guardare i ragazzi, ma non li vedono, che continuano a sentirli, ma non li ascoltano, perché non hanno tempo, perché c’è un programma da svolgere, perché “io i ragazzi di oggi non riesco proprio a capirli”.

Col colore dei capelli, che muta con la stessa frequenza con la quale il giorno e la notte si alternano, coi tatuaggi, che fanno della pelle una pagina di libro o un foglio da disegno, i nostri adolescenti dunque esprimono se stessi. Al di là dei loro volti e dei loro sguardi (che, per chi li sa decifrare, molto già dicono dei loro stati d’animo e delle loro emozioni) o, meglio, accanto ai loro volti e ai loro sguardi, i corpi dei millennials esprimono la loro ansia di libertà e di leggerezza, l’aspirazione a un mondo nel quale ogni approdo possa essere per un uomo una casa, la percezione di quanto sia angusta la terra per chi possiede un cuore grande, l’odio verso tutto ciò che è menzogna, falsità, raggiro, la volontà di vivere ogni giorno come se non ci fosse domani, la convinzione di essere irrimediabilmente lacerati tra luci e tenebre, virtù e vizio. Il vero demone dei giovani di questo terzo millennio non è la fine del futuro, vale a dire il venir meno di ogni progettualità e di ogni proiezione verso l’avvenire, ma la paura di scivolare fra gli inascoltati, gli invisibili, i sommersi, dunque fra i non-viventi, se è vero che la morte, come scrisse Pasolini ne “La religione del mio tempo”, “non è / nel non poter comunicare / ma nel non potere più essere compresi”.

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