Giorni fa è scomparso, a soli cinquant’anni, Pierluigi Cappello. Poeta autentico, artefice di una scrittura di grande nitore e profondità. Uno di quei poeti che hanno saputo restituire alle parole («penso che le parole rincorrano il silenzio») tutta la loro verità. Non a caso, confidava Cappello, «mi piace quando l'azzurro e le pietre si tengono / il suono dei "sì" pronunciati senza condizione, / dei "no" senza margini di dubbio». Il friulano Pierluigi, nato a Chiusaforte («una bolla, minuti raddensati in secoli») e vissuto a Cassacco, in una valle tra la Carinzia e la Slovenia, in mezzo a gente di poche parole, conosceva il valore della parola e del silenzio; diceva di portare «[…] nelle narici / il cuore di resina degli abeti, negli occhi il silenzio / di quando nevica, la memoria lunga di chi ha poco da raccontare». Aveva con la sua terra un legame fortissimo, e spesso i suoi versi ne riflettono, colori, spazi, asciuttezze. Dall’età di sedici, a seguito di un incidente stradale, Cappello era costretto su una sedia a rotelle. Della sua condizione fisica parlò nel libro di prose intitolato “Questa libertà” (Rizzoli, 2013); in quelle pagine leggiamo: «col tempo, il letto si è trasformato in un tappeto volante».
Due
Lascio la camera com’era quando era nei tuoi occhi,
incontrarti è il sapore che trattengo nel sorso di caffè.
Tra il piacere e quel che resta del piacere
il mio corpo sta come un posto dove si piange
perché non c’è nessuno.
Un giorno settembre era limpido e ventoso
il silenzio ammutoliva, la terra tornava al cielo.
[Pierluigi Cappello, da Mandate a dire all’imperatore, Crocetti Editore, 2010]