Epitome non è certo parola consueta. Ricorre spesso nell’ultimo romanzo (“Eccomi”) di Jonathan Safran Foer, perché di un compendio esistenziale si tratta, versione abbreviata della storia di una famiglia in crisi che nell’arco di quattro frenetiche settimane (e attraverso le vicende di quattro generazioni) vede venire allo scoperto tutte le proprie contraddizioni, frustrazioni, lo scarto tra ciò che si vorrebbe essere e la realtà. In un intreccio tra piccole e grandi storie (è qui racchiuso anche un secolo attraversato dal popolo ebraico in America) Foer ripropone una serie di temi a lui cari: i rapporti famigliari, l’identità ebraica, le tragedie della Storia, la fedeltà a se stessi, l’amore e l’egoismo, le responsabilità di ciascuno nei confronti degli altri.
Quando la distruzione di Israele ebbe inizio, Isaac Bloch stava meditando se suicidarsi o trasferirsi alla Casa ebraica. Aveva vissuto in un appartamento rivestito di libri fino al soffitto, con tappeti così folti da inghiottire dadi; poi in una stanza e mezza con il pavimento in terra battuta; su pavimenti di foresta sotto stelle incuranti; sotto le assi del pavimento di un cristiano che, a distanza di mezzo mondo e tre quarti di secolo, sarebbe stato ricordato con un albero piantato nel Giardino dei Giusti; in una buca, per tanti di quei giorni che le sue ginocchia non sarebbero mai più riuscite a distendersi del tutto; tra zingari e partigiani e polacchi non troppo disonesti; in campi di transito, di rifugiati e di profughi; su una nave, con una bottiglia con una nave dentro, miracolosa costruzione di un agnostico insonne; dall’altro lato di un oceano che non avrebbe mai completamente attraversato; sopra una mezza dozzina di negozi di alimentari che si era ammazzato a sistemare e rivendere con un profitto minimo; accanto a una donna che ricontrollava le serrature fino a romperle e che era morta di vecchiaia a quarantadue anni senza una sillaba di lode in gola, ma con le cellule della madre assassinata che ancora le si dividevano nel cervello; e infine, nell’ultimo quarto di secolo, in una casetta a due piani a Silver Spring, silenziosa come un globo di neve: un librone fotografico di Roman Vishniac che ingialliva sul tavolino del soggiorno; Nemici. Una storia d’amore che si smagnetizzava nell’ultimo videoregistratore funzionante al mondo; insalata di uova che diventava influenza aviaria in un frigorifero mummificato in un involucro di fotografie di pronipoti splendidi, geniali, senza tumori. Gli orticoltori tedeschi avevano potato l’albero genealogico di Isaac fino alle sue radici nel suolo galiziano. Ma grazie a fortuna e intuito e senza aiuti dall’alto, lui lo aveva trapiantato nei marciapiedi di Washington, D.C., ed era vissuto fino a vederne ricrescere i rami. E a meno che l’America non si fosse messa contro gli ebrei – o fino a quando, l’avrebbe corretto suo figlio Irv – l’albero avrebbe continuato a produrre rami e germogli. Naturalmente Isaac sarebbe stato di nuovo in una fossa, a quel punto. Non avrebbe mai raddrizzato le ginocchia, ma alla sua ignota età, dopo chissà quanti oltraggi chissà quanto vicini, era ora di disserrare i suoi pugni ebraici e ammettere l’inizio della fine. La distanza che separa l’ammettere dall’accettare è la depressione. Anche a prescindere dalla distruzione di Israele, la tempistica non era propizia: mancavano poche settimane al Bar Mitzvah del suo primo pronipote, che Isaac aveva fissato come traguardo della propria vita dopo aver varcato il traguardo precedente, la nascita dell’ultimo pronipote. Ma non si può stabilire quando l’anima di un vecchio ebreo lascerà libero il suo corpo e il corpo lascerà libera l’ambita stanza singola per il prossimo corpo in lista d’attesa. E neppure si può affrettare o rinviare il raggiungimento dell’età adulta. E d’altra parte, l’acquisto di una decina di biglietti aerei non rimborsabili, la prenotazione di un pacchetto di stanze al Washington Hilton, il versamento di ventitremila dollari di acconti e anticipi per un Bar Mitzvah che è in calendario dalle ultime Olimpiadi invernali non possono garantire che si farà.
[da Eccomi di Jonathan Safran Foer, Guanda, 2016]