Si torna a parlare di Neruda grazie a un film del regista Larrain, pure lui di nome Pablo, pure lui cileno. L’ultimo Neruda visto sugli schermi era stato quello interpretato da Philippe Noiret nel “Postino” (dal romanzo di Antonio Skármeta) con un Massimo Troisi tenerissimo e malinconico (tra le citazioni cult, “la poesia non è di chi la scrive, ma di chi la usa!”). Il talentuoso Larrain ricorre al poeta e senatore Neruda, costretto all’esilio negli anni di Pinochet, per raccontare un tragico spaccato di storia del suo paese. Ha scelto la figura di Neruda per come il poeta cileno abbia incarnato (cantato) l’anima del proprio paese, la storia e la fierezza di un popolo; con passione, ribellione, poesia. Basti pensare ai quindicimila versi del “Canto general”, monumentale opera che ha l’ambizione di racchiudere l’intera storia, la natura, la cronaca del continente americano. Un poema epico ispirato agli ideali del socialismo e dell’antimperialismo, un profondo atto d’amore dichiarato fin dai primi versi: “Terra mia senza nome, senza America, / stame equinoziale, lancia di porpora, / il tuo aroma mi salì dalle radici / fin nella coppa a cui bevevo, nella più esile / parola non ancora dalla mia bocca spuntata.”
Qui termina questo Libro. Esso è nato
dall’ira come una brace, come i territori
di boschi incendiati, e io desidero
che continui come un albero rosso
a propagare il suo limpido incendio.
Eppure non solo ira nei suoi rami
trovasti: le sue radici dolore
non soltanto cercarono ma forza,
e forza io sono di pietra pensosa,
allegria di mani insieme allacciate.
Infine, sono libero entro gli esseri.
E tra gli esseri, come l’aria vivo,
e dalla solitudine assediata
esco verso il folto delle battaglie,
libero ché nella mia è la tua mano,
a conquistare gioie indomabili.
Comune libro d’uomo, pane aperto
è questa geografia del mio canto,
e una comunità di contadini
una volta raccoglierà il suo fuoco
e seminerà le fiamme e le foglie
ancora nella nave della terra.
E ancora nascerà questa parola,
forse in altro tempo senza dolori,
senza le impure fibre che appesero
nere vegetazioni sul mio canto,
e di nuovo arderà nell’alto spazio
il mio cuore stellato e incandescente.
Così finisce questo Libro, e qui
lascio il mio Canto generale scritto
nella persecuzione, sotto le ali
clandestine della patria cantando.
Oggi 5 febbraio, in quest’anno
Millenovecentoquarantanove,
qui in Cile, a «Godomar de Chena»,
alcuni mesi prima di compire
i quaranticinque anni di mia età.
[P. Neruda, «E qui finisco (1949)» da Canto generale, traduzione di Dario Puccini, Edizioni Accademia, 1970]