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Orhan Pamuk, un mediatore culturale tra Oriente e Occidente

La cronaca riferisce quotidianamente delle contraddizioni, dei drammi umani e politici che si consumano in Turchia. Terra di confine tra due mondi, due culture: Oriente e Occidente. A suo modo ne parla anche l’ultimo romanzo di Orhan Pamuk, “La donna dai capelli rossi”. Lo scrittore turco è un grande (e critico) cantore del suo Paese diviso tra modernità e terrore. Ha giustappunto osservato Antonio Scurati: “si è assunto il ruolo antico di mediatore culturale tra il vicino Oriente e un perduto Occidente”. Non a caso nella “Donna dai capelli rossi” – storia d’amore, passioni, gelosie, tormentati rapporti tra padri e figli – Pamuk evoca certi fondamenti letterari della civiltà occidentale e orientale, chiamando in causa l'Edipo Re di Sofocle insieme al Rostam e Sohrab di Ferdowsi.
 
Volevo fare lo scrittore. Ma dopo i fatti che mi accingo a raccontare, sono diventato un geologo e un costruttore. Non credano i miei lettori che questi eventi siano morti e sepolti, che questi fatti appartengano al passato solo perché ho deciso finalmente di narrarli. Ogni volta che torno a pensarci, ogni volta, sento addosso il peso di quei momenti. Per questo sono sicuro che anche voi, come me, vi lascerete trascinare nella spirale dei misteri del rapporto tra padre e figlio.
Nel 1985 vivevamo in un appartamento vicino a Palazzo Ihlamur, alle spalle di Beşiktaş. Mio padre aveva una piccola farmacia: il nome sull’insegna era Hayat, vita. Una volta alla settimana, quand’era di turno, teneva aperto fino al mattino dopo. In quelle notti ero io a portargli la cena. Era un bell’uomo, alto, magro… Mentre lui consumava il suo pasto accanto alla cassa, io mi lasciavo inebriare dall’odore dei medicinali. Ancora oggi, all’età di quarantacinque anni – ne sono trascorsi trenta da allora –, amo l’odore delle vecchie farmacie in legno.
L’Hayat non era molto frequentata. Quando restava aperta per ventiquattro ore di fila, mio padre passava il tempo a guardare un televisore portatile, tanto di moda in quegli anni. A volte venivano a trovarlo degli amici, attivisti politici. Li sentivo parlare a bassa voce, ma non appena notavano la mia presenza interrompevano i loro discorsi per dirmi che ero un bel ragazzo, proprio come mio padre, e finivano per farmi le solite domande: che classe fai? Ti piace studiare? Cosa vuoi fare da grande?
Notando, però, un certo disagio in lui quand’era in compagnia di queste persone, dopo il loro arrivo non mi trattenevo a lungo: preferivo tornarmene a casa, il cesto portavivande sottobraccio, per le strade illuminate dalla fioca luce dei lampioni e costeggiate dai cipressi. Una volta rincasato, per evitare che mia madre si preoccupasse all’idea che mio padre potesse cacciarsi di nuovo nei guai o potesse abbandonarci ancora una volta e senza motivo, evitavo di raccontarle della visita di quei suoi amici attivisti.
Ma la politica, per i miei genitori, era solo uno dei tanti pretesti per litigare. Quand’erano in contrasto, non si rivolgevano la parola per giorni. Forse non si amavano. Intuivo che mio padre dovesse avere altre donne a ricoprirlo di attenzioni. A volte mia madre nei suoi discorsi mi lasciava intendere che c’era un’altra. Per non soffrire di fronte ai loro litigi avevo giurato a me stesso di non farci più caso.
L’ultima volta che vidi mio padre fu in farmacia, una delle tanti notti in cui gli avevo portato la cena, durante la primavera della mia prima liceo. Mentre lui alla cassa consumava la cena e guardava il telegiornale, servii io due clienti al banco – uno voleva un’aspirina, l’altro della vitamina C e un antibiotico –, e misi i soldi nella vecchia cassa, quella che all’apertura emetteva un trillo piacevole. All’uscita per tornare a casa, gli lanciai un ultimo sguardo e lui, sulla porta, mi salutò con la mano, il sorriso sulle labbra.
Il mattino dopo mio padre non rincasò. Me lo disse mia madre quando tornai da scuola, nelle prime ore del pomeriggio. Aveva gli occhi gonfi di pianto. Mi convinsi che lo avevano prelevato in farmacia e condotto in commissariato, dalla polizia politica. Non era certo la prima volta. Lo avrebbero torturato in molti modi, tra falaka e scosse elettriche.
 

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