Il viaggio che Marco Revelli compie attraverso l’Italia, da Torino a Lampedusa, è un viaggio di smarrimenti (da qui il titolo “Non ti riconosco”) per come le mappe delle città si siano modificate non tanto nelle loro topografie ma nel tessuto sociale, umano, antropologico. Il paesaggio è mutato in corpo e anima. Perciò capita di perdersi, e quindi di avere paura, coltivare risentimenti, difendersi da chi ci è straniero. Fine del mondo? Senz’altro fine di un certo mondo.
“Un viaggio si fa o per fuggire da qualcosa, o per cercare qualcosa”. L’ha detto Diego Osorno, forse il più grande reporter-narratore messicano, nel tentativo di spiegare il suo particolare “giornalismo infra-realista”. E’ una gran bella definizione. Che, sento, mi riguarda: “Da cosa fuggo, io?” in questo mio viaggio. E “che cosa vado cercando”?
Sicuramente mi spinge via il fastidio per i troppi “pesi falsi”, un po’ come il verificatore Eibenschütz del celebre romanzo di Joseph Roth. Questa bolla d’aria rarefatta e insieme inquinata che respiro subito fuori di casa – nella città che lentamente evapora – e che all’inizio sembra frizzante, dà un senso di leggerezza e persino di libertà, ma a poco a poco ti soffoca fino all’asfissia. Cosa cerco, invece, non lo so. Forse solo un qualche “punto di verità”, nella grande finzione. O, magari, un’ennesima “verifica dei poteri”, come Franco Fortini chiamava la rinnovata domanda di chi scrive sul (sempre più incerto) “mandato sociale” che l’autorizza a farlo e lo impegna. E la possibilità di esprimere in prima persona – “in soggettiva”, per così dire – la dimensione della trasformazione che il nostro Paese ha subito in questo “passaggio di secolo”. O, più banalmente, un motivo (una misura?) del senso di straniamento. E’, se possibile, un’uscita di sicurezza…
[da Non ti riconosco di Marco Revelli]