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Non c’è posto per l’amore, qui. Se l’oggi sembra ieri

Si dice che la storia non sia mai uguale a sé stessa, ma, a volte, si somiglia in maniera impressionante. Inevitabile non pensarlo mentre scorriamo le pagine del romanzo “Non c’è posto per l’amore, qui” di Yaroslav Trofimov, tradotto da Stefano Travagli per La nave di Teseo. Opera di finzione – avverte l’autore – ancorché basata su vicende del passato realmente accadute alla sua famiglia in Ucraina e su fatti storicamente acclarati.

Siamo a Karkiv nel 1930. La diciassettenne Debora Rosenbaum è una ragazza determinata, vuole essere artefice della propria vita, legge molti libri, sogna un futuro di donna moderna, evoluta, poiché è arrivato il tempo di un mondo nuovo dove il vecchio (tradizioni, religione, mentalità) pare non avere più senso. Basta vedere come si sta trasformando la capitale della nuova Repubblica socialista sovietica ucraina, con i suoi grattacieli, il fermento di idee ed opere che preannunciano il rigoglioso benessere socialista. Lei vuole “far parte del futuro”, “fare la storia”. Perciò lascia la sonnolenta cittadina di Uman, la casa di famiglia dove si parla ancora yiddish e tutto è cupo…, mobili, tendaggi, ricordi.

A Kharkiv trova lavoro in una fabbrica di trattori, si iscrive all’università, conosce Samuel, un bel ragazzo aspirante pilota di caccia. Ma i sogni di Debora – e quelli dell’Ucraina – si infrangono presto contro la realtà. Le parvenze di libertà concesse dalla Russia tramutano in repressione, violenze, persecuzioni. E’ Mosca a dettare la linea ideologica, guai a chi osa discuterla o, peggio, ancora se ne discosta. La carestia indotta dallo Stato sovietico devasta le campagne, affama l’intera popolazione causando sofferenze e milioni di vittime. Accade ciò che gli ucraini chiameranno Holodomor, sterminio per fame. Scoppia poi la seconda guerra mondiale, con ulteriori patimenti e morti.

Debora, insieme a Samuel e ai suoi figli, attraversa tutti questi drammi, si sposta da una città all’altra, resiste, cede a compromessi pur di salvare sé stessa e chi ama. Difficile leggere il romanzo di Yaroslav Trofimov senza sovrapporlo all’attualità. Non è forzatura retorica vedere questa donna che soffre, ama, spera, come simbolo, anche nell’oggi, di un Paese aggredito e martoriato. Sarà pur vero che la storia non è mai uguale a sé stessa, ma chissà perché, a momenti, le piaccia tanto farsi il verso. Ed è sempre un brutto verso.

***

Debora, determinata e impaziente, entrò a grandi passi nel salone della parrucchiera e tirò fuori dalla sua logora borsa di tela una preziosa rivista americana. “Voglio i capelli corti come i suoi, esattamente così,” disse aprendo la rivista alla foto dell’attrice Louise Brooks. “Me li puoi fare?” La parrucchiera, una donna robusta sulla quarantina pesantemente truccata, prese in mano la pubblicazione straniera e passò un dito tozzo su quella carta insolitamente lucida. Sfogliò lenta le foto dell’inimmaginabile abbondanza americana, le pubblicità di casalinghe dalle guance rosa che servivano bistecche esageratamente grandi ai loro solenni e sobri mariti.
“Dopo posso tenerla?” chiese, sapendo che la risposta sarebbe stata con ogni probabilità negativa.
“Certo che puoi tenerla,” rispose Debora sorprendendola. “Però mi tagli i capelli gratis, adesso e per tutto l’anno prossimo.”
“Fino all’estate,” contrattò la parrucchiera. Poi indicò la poltrona accanto al lavandino. “Adesso, siediti.”
“Fino alla fine dell’estate,” replicò Debora affondando nella poltrona, orgogliosa delle sue abilità di negoziatrice.
“Va bene, va bene. Ma non capisco proprio perché tu voglia i capelli così corti, come un ragazzino.” La donna sospirò e con riluttanza iniziò a lavorare di forbici. “È un gran peccato.”
Da una finestrella per la ventilazione entrava la cacofonia della Kharkiv industriale, la nuova capitale della Repubblica socialista sovietica ucraina. Martelli che battevano nei cantieri, treni, clacson delle auto, sirene, musica in filodiffusione, le grida e gli schiamazzi delle strade affollate.
Debora viveva a Kharkiv da più di due mesi, e l’energia perpetua della grande città le dava ancora piacere. Sentiva un grumo di eccitazione allo stomaco ogni volta che il tram, superati i campi di cavoli e le case dei villaggi imbiancate a calce, entrava nel cuore pulsante della capitale. Kharkiv era completamente diversa da Uman, la sonnolenta cittadina da cui proveniva, accoccolata sulle graziose colline verdi che circondavano un parco trascurato pieno di stagni, cascate e statue di divinità greche. Questa era la metropoli del futuro, un luogo in costante mutamento davanti ai suoi occhi, dove ogni giorno poteva accadere qualcosa di inatteso.
A Kharkiv autobus nuovi di zecca riempivano i larghi viali, facendosi largo tra le carrozze a cavalli e qualche automobile di produzione americana o tedesca. I marciapiedi erano affollati di anziani eleganti che guardavano dall’alto in basso i nuovi abitanti provenienti dalle campagne, frastornati dalla confusione che li circondava, timorosi persino di attraversare la strada. Gli ambulanti vendevano la loro merce agli incroci, dalle pozioni miracolose contro le malattie veneree alle scarpe rattoppate. I cinema pubblicizzavano le ultime uscite a grandi lettere luminose. Nuovi edifici spuntavano ovunque come funghi, circondati da gru che sollevavano blocchi di cemento. E sopra tutto svettavano i grattacieli futuristici del Derzhprom, che una volta completati avrebbero ospitato il governo ucraino e le cui audaci linee dritte sfidavano le decorazioni dai colori pastello dell’architettura prerivoluzionaria.
E le librerie! A differenza di Uman, nelle librerie del mercato art nouveau, con il suo tetto di vetro, si potevano trovare gli ultimi romanzi russi e ucraini, e novità dalla Germania, dalla Francia e dall’America. Le case editrici, libere dalle restrizioni delle leggi capitaliste sul diritto d’autore, che l’Unione Sovietica non riconosceva, facevano uscire ogni settimana una quantità di bestseller tradotti.
Soltanto un’ora prima, Debora era saltata giù dal tram e aveva superato l’imponente cattedrale della Dormizione che, privata di croci e campane, ora ospitava l’emittente nazionale ucraina. Un obsoleto simbolo religioso era stato trasformato in un simbolo del progresso scientifico. Entrando nel mercato, Debora si era subito diretta alla sua libreria preferita. Era una cliente regolare, acquistava due o tre romanzi al mese, e la commessa, come sempre, le aveva tenuto da parte gli ultimi arrivi. Uno in particolare aveva un titolo promettente – Ventiquattro ore nella vita di una donna –, e sulla copertina c’era un’illustrazione del casinò di Monte Carlo.
Mentre pagava il sottile volumetto, Debora annusò l’odore di inchiostro fresco che riempiva il negozio, un odore che aveva imparato ad amare. Avrebbe voluto avere il tempo di restare lì a sfogliare i libri. Ma non quel giorno. Mancavano soltanto dodici ore prima della fine dell’anno, e almeno una l’avrebbe persa per tornare al suo dormitorio al cantiere della Fabbrica di trattori di Kharkiv, una delle grandi imprese del Primo piano quinquennale. Poi, dopo essersi fatta fare i capelli, doveva prepararsi per la grande festa della sera, per cui era riuscita a ottenere un invito esclusivo grazie alla sua recente promozione nei lussi della Sezione politica. Una promozione che poteva portare moltissimi benefici a chi fosse provvisto di spirito di iniziativa.
Uno degli ingegneri americani che aiutavano nella costruzione della fabbrica di trattori – creature misteriose che Debora adocchiava di tanto in tanto ma con cui non aveva mai l’occasione né il permesso di parlare – aveva lasciato una copia spiegazzata di Vanity Fair. Una delle donne delle pulizie, temendo di essere macchiata da questa impurità ideologica, aveva consegnato la rivista alla Sezione politica, dove Debora era riuscita a intercettarla e a esaminarla in ogni minimo particolare. Il caschetto dell’attrice americana, che le incastonava il sorriso malizioso, era liberatorio. Era un’immagine del futuro. E Debora voleva far parte del futuro. La vita, in fin dei conti, era destinata a un miglioramento continuo. Il futuro, come recitavano i cartelloni sparsi per tutta la città, era luminoso.

[da Non c’è posto per l’amore, qui di Yaroslav Trofimov, trad. di Stefano Travagli, La nave di Teseo, 2025]

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