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“Nell’altro è l’unico appoggio”. I giovani e la disabilità

“Nati due volte” (2000) resta sia per la limpidezza dello stile sia per la misura del tono uno dei libri più belli di Giuseppe Pontiggia. In trentotto brevi capitoli vi sono narrati alcuni episodi della vita di Frigerio, un ragazzo nato con una forma di paralisi cerebrale, che compromette il movimento delle braccia e delle gambe (“L’andatura è sgraziata e, anziché seguire i comandi del corpo, sembra sfruttarne il peso, precipitando talora in avanti con accelerazioni improvvise”). Dinanzi a questa forma di handicap, la reazione dei familiari, degli amici e dei colleghi dei genitori di Frigerio, dei suoi insegnanti e dei suoi compagni di scuola, è varia, oscilla tra il rifiuto e l’accoglienza, la freddezza e la gentilezza. Il ragazzo lo sa, sa che le mezze misure nel suo caso non sono contemplate, tanto che al padre, che gli domanda se abbia avuto paura al mattino a prendere la parola nel corso di un’assemblea studentesca, lui risponde: “Ho pensato: i casi sono due. O mi trattano come spazzatura o mi lasciano parlare”.

L’atteggiamento degli adolescenti nei confronti della disabilità non è affatto quello, improntato a disumanità e cattiveria, che alcuni video che circolano sui social network esibiscono, che alcune cronache, giornalistiche o televisive, raccontano. Indubbiamente i rapporti tra coetanei conoscono anche l’offesa, l’umiliazione, le botte, l’esclusione. Ma quando le relazioni scadono a questo livello, ci troviamo già dentro i territori del bullismo, dove ogni distinzione (di sesso, di capacità, di età, di cultura) viene riassorbita all’interno della dicotomia vittima / carnefice. Certo, il “trattare come spazzatura”, riprendendo le parole del protagonista di “Nati due volte”, un disabile fa più clamore, indigna maggiormente l’opinione pubblica, perché vorremmo che la fragilità, la vulnerabilità, la grazia indifesa venissero protette e amate, in ogni istante e da chiunque. Il fatto, però, che questo non accada, o almeno non accada sempre, non deve indurci a credere che “il lasciare parlare” – secondo l’espressione di Frigerio –, il prendersi cura, il trattare su un piano assolutamente paritario l’altro-da-sé, non trovino spazio nelle relazioni tra i cosiddetti “normali” e i disabili (o “diversamente abili”).

Nel corso dei miei anni di insegnamento, io sono stato più volte testimone della maniera con la quale gli studenti vivono il rapporto con un compagno ipovedente, affetto dalla sindrome di Down, autistico, non completamente autosufficiente nei movimenti, costretto su una carrozzina, con un ridotto funzionamento intellettivo. In tutta sincerità, non ho mai colto un atteggiamento non dico di disprezzo o di sufficienza, ma neppure di indifferenza. Ciò vale per la fine del vecchio come dell’inizio del nuovo millennio, e costituisce un importante elemento di continuità tra le diverse generazioni di adolescenti, al di là delle denominazioni impiegate per definirle in una prospettiva diacronica a mio avviso fin troppo puntuale: generazione x (i nati tra il 1965 e il 1980), generazione y (i nati tra il 1980 e il 2004), generazione z (i nati dal 2005 in poi).

Se ciò è avvenuto, non è dipeso dal fatto che i “miei” studenti fossero particolarmente buoni, quasi che incarnassero della natura umana l’anima più gentile e pura. La mia, infatti, era, e resta, un’antropologia sostanzialmente negativa. Semplicemente quei “miei” studenti avevano alle spalle – hanno alle spalle –  una famiglia che ha cercato di educare i figli a valori come la compassione, la solidarietà, la generosità e, inoltre, hanno incontrato docenti, già a partire dalla scuola elementare, che con il loro insegnamento e la loro testimonianza hanno contribuito a relativizzare quelli che erano – che sono – i valori dominanti: il denaro, il successo conseguito a qualsiasi prezzo, l’affermazione di sé. I genitori e gli educatori che continuano a mostrare con la concretezza del loro agire (in un’epoca in cui la formazione del giovane passa ormai in larga misura attraverso la rete e YouTube) che i principi autentici della vita sono, come ha scritto Eugenio Borgna nel saggio  “La solitudine dell’anima”, “quelli della donazione e della comunione, della partecipazione al destino degli altri e della immedesimazione nella gioia e nella sofferenza degli altri”, sono  genitori, sono educatori, che non solo salvano i loro figli (i loro allievi), ma salvano anche il mondo intero. Salvano i loro figli (i loro allievi) da un modello di vita sterile e volgare, che ha nell’etica del profitto e nel rapporto strumentale con le persone i suoi tratti caratterizzanti. Salvano, di conseguenza, il mondo intero, perché contribuiscono a formare uomini e donne i quali, anche un domani, saranno disponibili a prestare ascolto a quanto viene detto – per mezzo di parole storpiate, della luce negli occhi, del linguaggio del corpo – là dove espressioni come “efficienza”, “produttività”, “razionalità rispetto allo scopo”, non possono risuonare che beffardamente estranee, e dove s’impone, con la forza della necessità e dell’evidenza, la verità che Rainer Maria Rilke affidava a un suo verso giovanile: “nell’altro è l’unico appoggio”.

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