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Nel romanzo di Francesco Piccolo ecco il maschio e l’animale che gli è dentro

Poveri uomini – anzi, poveri maschi – per noi non c’è scampo. La bestia che è in noi non dà tregua. Neanche per coloro che s’atteggiano ad anime belle, che hanno cultura, sentimenti, capacità di pensiero, consapevolezza che dalla valle di Neander (dove furono ritrovati i resti di nostro nonno ominide) e la Silicon Walley (dove costruiamo diavolerie high-tech) si è frapposto un lungo tempo e soprattutto una cosa chiamata evoluzione. A fregare l’homo sapiens, anche quello 2.0, è tutt’oggi un residuo di peluria sul petto – ma più che altro dentro il petto – su cui, spesso, continua a battere i pugni facendo gesti inconsulti. Questo ci dice l’ultimo romanzo di Francesco Piccolo, non a caso intitolato “L’animale che mi porto dentro”. Impietoso racconto su un maschio contemporaneo in perenne contraddizione, in continua lotta tra l’uomo evoluto che vorrebbe essere e la legge del branco, l’animale che si porta dentro fin da quando era ragazzino: “Quello che tenevo compresso dentro di me, nell'ora di educazione fisica o durante i film di Maciste, o certe sere quando andavo a dormire e avevo paura, era l'angoscia di dimostrare di essere maschio. Doverlo far vedere a tutti, ogni ora, ogni giorno, ogni settimana. E ogni volta misurare la mia inadeguatezza”. Perché essere maschio significa comportarsi secondo un codice che impone atteggiamenti, linguaggio, parametri su cui misurare, giustappunto, la propria mascolinità («Dentro di me continuerò sempre a chiedermi: siete contenti di me? sono come mi volevate?”). Eccolo, dunque, il maschio adolescente a vita, egocentrico, viziato, che quando, poi, non regge la sconfitta – e per evitarla preferirebbe non affrontare nemmeno la prova – diventa fragile e perso. Insomma, le pagine di Francesco Piccolo fanno molto riflettere (ed anche molto ridere) seguendo la formazione di un maschio che ci è coetaneo. Forse il messaggio che se ne ricava è anche un po’ disperante, a tratti doloroso. Sembra quasi dire che sia meglio essere superficiali, piuttosto che scavare dentro di noi e trovare quell’animale che ancora zompa nel nostro profondo.
 
***
[…] E così, mentre siamo nel centro del salone dell’ambasciata a chiacchierare, e mia moglie è già silenziosa e stupita, una scrittrice si avvicina con atteggiamento divertito, indica una donna dall’altra parte della sala, dicendo che è la sua traduttrice finlandese e le ha chiesto di dirmi che scapperebbe volentieri con me. E mi ha consegnato il biglietto da visita della finlandese, dove c’è scritto a mano un numero di cellulare diverso da quello del lavoro. Siamo persone adulte, ma è una situazione simile a quando il mio amico delle medie andò a fare la dichiarazione a Federica al posto mio. Solo che questa volta Federica sono io.
La scrittrice ha detto tutto questo davanti a mia moglie perché lo ritiene semplicemente un gioco. Ma dallo sguardo che ci siamo scambiati io e la donna, da una parte all’altra della sala, ho avuto subito la conferma che non è un gioco; appena ci sfioriamo al buffet, mi dice in perfetto italiano: allora, mi chiami? La settimana prossima vengo in Italia. Quando la scrittrice ha detto che la sua traduttrice voleva scappare con me, anche mia moglie ha guardato dall’altra parte della sala, ha visto una donna bella ed elegante, e ha cominciato a fissarla con un’espressione riconoscibile, anzi esplicita che voleva dire: ma come è possibile?
Tornando in albergo siamo rimasti in silenzio, mia moglie ha detto soltanto: che facciamo di quel bigliettino, lo buttiamo? L’ho accartocciato e lanciato in un cestino. Ho pensato che avrei potuto chiedere il numero alla scrittrice, o che avrei potuto lasciar perdere. Ho pensato che in questo momento della mia vita posso fare tutto quello che mi pare: ho un’amante, Marta, di cui sono innamorato; adesso c’è una traduttrice finlandese che vuole scappare con me; e sono nel momento in cui mi sento più apprezzato come scrittore. Sono soddisfatto, piuttosto arrogante e molto desideroso di ammirazione. Volevo entrare nelle feste così, volevo che alcune donne mi guardassero così, volevo che mia moglie si stupisse così. Non c’entra con la sostanza di ciò che scrivo e dei sentimenti che provo; ma è una volontà altrettanto radicata, forse di più perché non riguarda solo me. Voglio essere ammirato per soddisfare quei fantasmi che mi girano intorno: i fantasmi dell’appartenenza alla mia categoria di maschio che, bene o male, ha avuto a che fare con la potenza per tutta la vita.
 
[da L’animale che mi porto dentro di Francesco Piccolo, Einaudi, 2018]

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