La bellezza fa paura. Fa paura perché si teme sempre di non riuscire ad afferrarla, sebbene appaia lì, a portata di mano, oppure che, appena stretta tra le dita, fugga via, facendosi lontana e irraggiungibile. Così l’altro giorno, quando ho letto che alla metà di luglio The Smiths terranno un concerto a Firenze, un sottile brivido mi ha attraversato da capo a piedi. E ho pensato che sarebbe bello, – fosse vero – tornare ad ascoltare dal vivo la formazione di Manchester. Perché io con la loro musica sono cresciuto (è del 1983 il loro primo singolo, “Hand in glove”), ho imparato quel poco d’inglese che so sui testi di Morrissey, ho cercato invano di riprodurre i morbidi arpeggi chitarristici di Marr, ho conosciuto le miserie e le contraddizioni della politica thatcheriana, platealmente celebrata da coloro che – allora come ora – sono soliti misurare la salute di un Paese unicamente alla luce del suo Pil. Ma, più di ogni altra cosa, ho toccato con mano che è possibile scrivere bellissime canzoni d’amore e al contempo bellissimi testi di denuncia sociale. Ecco perché anch’io mi sento di dire con Pier Vittorio Tondelli, il Tondelli di Un weekend postmoderno, che “in questa voce, in questo grido, posso cogliere le speranze del ragazzo che sono stato e dei ragazzi che tutti siamo stati”.
Il fatto che ami di un amore atroce e disperato, come sempre è il vero amore, The Smiths – più di The Cure, più dei Depeche Mode – non significa che per me loro siano stati la miglior band britannica degli anni Ottanta. Non lo ho mai detto, non lo dirò mai. Personalmente, infatti, rifuggo dall’impiegare il grado superlativo dell’aggettivo tutte le volte che parlo di cantanti, di musicisti, di scrittori, specie se sto parlando di una fase della vita (l’adolescenza, la prima giovinezza), nella quale non solo il giudizio estetico non si è ancora affinato, ma in cui, soprattutto, il giudizio conta pochissimo. Forse è anche per questo che ho sempre sopportato poco gli adulti che ridono dei gusti musicali dei figli, che, se questi pronunciano il nome di un rapper o di una nuova band, subito li invitano ad ascoltare un po’ di musica classica o, in subordine, qualche cantautore della vecchia scuola romana o genovese. Discettano e pontificano, distinguono ciò che è ben fatto da ciò che è mediocre, ciò che richiede perizia da ciò che è banale (“si tratta solo di quattro accordi messi lì a caso”), ciò che trova meritatamente posto all’interno del sistema delle arti da ciò che è semplice svago e diletto.
La verità è che nessun giovane disconosce o mette in discussione la grandezza di Bach e di Mozart, di Coltrane e di Davis, di De André e di De Gregori. Semplicemente è altro che lo cattura e lo fa innamorare di un artista. Questo altro rimanda allo strato più profondo dell’individuo (giustamente, perciò, Ernst Bloch ha potuto parlare di “natura utopica” della musica) e, soprattutto, inerisce a dimensioni come la creatività, le proiezioni, le emozioni, l’identificazione, che si pongono al di là di ciò che è calcolo, rigore, oggettività. L’amore per la discografia di un gruppo o di un solista è principalmente amore per quel gruppo, per quel solista. Più dei genitori e dei professori – meglio degli adulti in generale – la band musicale e il cantante, infatti, sono in grado di attivare quei processi di identificazione, che smuovono emozioni e suscitano proiezioni fantastiche, senza i quali la costruzione della propria identità diviene impossibile. I testi e gli accordi di un brano non esauriscono mai il significato che l’aggettivo “bello” possiede per un giovane se riferito a un cantante. Quest’ultimo è “bello” anche perché nel suo modo di vestire, di proporsi, di gesticolare, di sorridere, di tenere la sigaretta tra le dita, di muoversi sul palco, di parlare della società e del potere, il ragazzo rinviene sia ciò che è sia ciò che vorrebbe essere. Nei testi degli Smiths, ad esempio, io ritrovavo tanto la mia stessa timidezza d’innamorato, imbarazzato nel chiedere un primo appuntamento (“and you never knew / how much I really liked you / because I never even told you”), quanto il coraggio, che io allora non possedevo e che a Morrissey, invece, non difettava affatto, di sostenere e di portare avanti certe scelte politiche senza temerne le possibili conseguenze (“the kind people / have a wonderful dream / Margaret on the guillotine”). E’ per questo che il quartetto di Manchester a me pareva e continua a parere bello. Non perché fosse migliore – tecnicamente migliore – di altri gruppi, ma perché, quando inserivo nello stereo “Meat is murder” o “The Queen is Dead”, mi pareva di capire meglio chi ero e chi non sarei mai stato, cosa desideravo per me e cosa non avrei mai desiderato, senza cadere in una perenne frustrazione o in una continua rimozione della realtà. Ecco perché, ancora oggi, tengo orgogliosamente in bella vista il doppio cd di “The sound of The Smiths” accanto a quello di “A kind of blue” di Davis, ai “Concerti brandeburghesi” di Bach, a “Rimmel” di De Gregori.