“Questo è un romanzo, un’opera di fantasia, ma come ogni opera di fantasia nasce dalla realtà. Ciò che è inventato non è mai accaduto, ma sarebbe potuto accadere. Ciò che è reale è accaduto davvero, ma, il più delle volte, non sarebbe dovuto accadere.” Così ci avverte Mimmo Rafele per introdurci al suo libro “Quello che è Stato. Romanzo della storia d’Italia dalla Seconda alla Terza guerra mondiale” (Fandango). Romanzo ispirato da una storia tanto vera quanto drammatica: la strage di Portella della Ginestra, nel comune palermitano di Piana degli Albanesi, avvenuta il 1° maggio 1947. Circa duemila contadini, provenienti da tutta la zona, si erano riuniti per celebrare la Festa del Lavoro. Ma la festa si trasformò in un eccidio ad opera della banda criminale di Salvatore Giuliano, dichiarato avversario dei comunisti, nonché mandante dei poteri mafiosi, del movimento indipendentista siciliano, di tutte quelle forze che, con i nuovi assetti politici e istituzionali del dopoguerra, vedevano minata la loro egemonia. I mitra dei banditi uccisero otto persone adulte, tre bambini; ventisette furono i feriti, alcuni di loro morti poi in ospedale. Mai furono individuati i reali mandanti, comunque espressione di certi ambienti politici siciliani e americani messisi in combutta per scoraggiare, con quell’azione ‘esemplare’, qualsiasi ulteriore rimostranza della popolazione contadina che chiedeva la terra e aveva votato per il Blocco del Popolo nelle recenti elezioni. Nella finzione letteraria, il protagonista che vive e racconta questa terribile esperienza è Lucio Cuccia, un ragazzo all’epoca dei fatti quindicenne. Lui è lì, a Portella della Ginestra, insieme ai genitori, in mezzo alla gente che fa festa e che in pochi minuti viene crivellata di colpi. Lucio vede morire accanto a sé la madre e il padre. “Lucio rovescia il corpo della madre sul terreno. È forte, a quindici anni è più alto di lei. Agnese ha gli occhi del suo stesso colore, azzurri e chiari. Mi sta guardando, pensa Lucio, e gli sembra anche di vedere, sul volto impiastrato di sangue, la luce di un sorriso. Forse è un’impressione o forse Agnese Cuccia muore davvero in quel momento, contenta di sapere che Luciuzzu è vivo, che è riuscita a salvarlo col suo corpo da quella morte così repentina e incomprensibile. Vito, il padre, è morto pure lui, ma è rimasto così, in ginocchio, appoggiato a una roccia che sporge dal terreno, per mano ad Agnese. Nell’altra stringe ancora la bandiera.” In un attimo Lucio si ritrova orfano e solo. Si imbarca, clandestino, alla volta di Napoli. Sulla nave conosce Calogero Frangipane, un avvocato palermitano, persona decisamente equivoca, che, una volta a Napoli, lo fa entrare nel giro della piccola delinquenza e, in un rischioso crescendo, della malavita, della destra eversiva. Lucio arriva così ad azzardare un doppio gioco tra le due parti – i rossi e i neri – quando si avvicina anche al partito comunista. E’ disposto a qualsiasi cosa pur di vendicare la morte dei suoi genitori. Con una cadenza quasi epica Mimmo Rafele ricostruisce uno spaccato di storia italiana che sembra ormai lontanissimo, quando nel nostro paese c’era un bandito di nome Salvatore Giuliano che, dalla Sicilia, scriveva al presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, una lettera di questo tenore: “… Voi potreste, ed a ragione, chiedere: “… perché volete che la vostra splendida isola diventi la 49^ stella americana? … Noi vogliamo unirci agli Stati Uniti d’America. La nostra organizzazione è ormai interamente compiuta; abbiamo già un partito antibolscevico pronto a tutto…”. Tutto ciò che seguì si chiamò Guerra Fredda.
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1 maggio 1947
Portella della Ginestra (Palermo)
Lucio Cuccia sente improvvisamente il corpo di sua madre Agnese premere contro il suo, perde l’equilibrio, cade all’indietro, un ramo gli si conficca in un fianco. Non respira, un liquido caldo e vischioso gli riempie la bocca. D’istinto sposta quel corpo che lo sta soffocando. E vede suo padre Vito, in ginocchio, stringere con una mano la mano di sua moglie, con l’altra l’asta della bandiera rossa mossa dal vento che soffia sulla piana. La fronte è coperta di sangue, l’occhio sinistro non c’è più, l’altro è sbarrato, incredulo. Soltanto ora Lucio realizza che stanno sparando.
Qualche istante prima sono echeggiati dei colpi, ma è sembrata una scarica di mortaretti, un anticipo della festa finale. Un bambino, infatti, ancora ride e batte le mani, e in quell’attimo gli si scoperchia la testa. Un mulo si imbizzarrisce, una bambina vestita di bianco gira su se stessa con un movimento da ballerina e si accascia sull’erba. Dal palco stanno scappando tutti, le bandiere rosse che lo circondano ondeggiano, si piegano, cadono.
Lucio rovescia il corpo della madre sul terreno. È forte, a quindici anni è più alto di lei. Agnese ha gli occhi del suo stesso colore, azzurri e chiari. Mi sta guardando, pensa Lucio, e gli sembra anche di vedere, sul volto impiastrato di sangue, la luce di un sorriso. Forse è un’impressione o forse Agnese Cuccia muore davvero in quel momento, contenta di sapere che Luciuzzu è vivo, che è riuscita a salvarlo col suo corpo da quella morte così repentina e incomprensibile. Vito, il padre, è morto pure lui, ma è rimasto così, in ginocchio, appoggiato a una roccia che sporge dal terreno, per mano ad Agnese. Nell’altra stringe ancora la bandiera.
I colpi continuano, secche scariche di mitraglia che arrivano dai cespugli tinti del giallo delle ginestre del monte Pelavet, ’a muntagna Pizzuta. Le raffiche si confondono con le urla delle centinaia di persone arrivate su quell’altipiano che chiamano Portella della Ginestra, da Piana degli Albanesi, da San Giuseppe Jato e perfino dal capoluogo, a celebrare la Festa del Lavoro. Ora gridano tutti, e corrono. Gli uomini impacciati dal vestito buono, da giacche e cravatte a cui non sono abituati, le donne anch’esse vestite a festa, qualcuna, come Agnese, ha indossato il costume arbëreshë, che le madri tramandano alle figlie da quando i loro avi, nel ’500, sono arrivati in quelle terre dall’Albania.
Lucio si alza in piedi, in quell’attimo la bandiera in mano a suo padre si piega in avanti, lui la afferra prima che finisca nella polvere. L’ha ricamata Agnese, con la falce e il martello incrociati, quando, dieci giorni prima, sono andati a celebrare in piazza la grande vittoria alle elezioni regionali siciliane del Blocco del popolo, comunisti e socialisti uniti. Lucio non ha capito bene cosa cambierà ora che il comunismo è arrivato a Piana degli Albanesi. Ma intuisce che i suoi genitori sono morti per questo.
Le raffiche continuano. Lucio vede il baluginio degli spari nella macchia che ricopre la montagna, vede i proiettili scheggiare la roccia accanto a sé. D’istinto si appiattisce nuovamente sul terreno, accanto al corpo immobile di sua madre. La tocca con la punta delle dita, come a volerla svegliare. Ma Agnese non si muove, sembra guardarlo con quell’alba di sorriso sulle labbra. “Adesso che faccio”, sta pensando Lucio quando due mani l’afferrano e lo trascinano via.
“Curri, curri… ca n’ammazzanu a tutti!”
Lucio fa resistenza, non vuole staccarsi dai suoi genitori, ma l’uomo che lo tira per il braccio è grande e grosso. È un paesano suo, si chiama Gino Dolce e sono mezzi cugini. Corre forte, Gino, tiene già l’affanno, e Lucio, si divincola dalla sua stretta. Ma non torna indietro, prosegue verso la montagna, verso le raffiche di mitra.
È l’unico a correre in quella direzione, incontro alle pallottole, anche se adesso che la piana si è svuotata, che sono rimasti solo i cadaveri, qualche mulo e le bandiere piantate nell’erba, i colpi si stanno diradando. Lucio vede un uomo sbucare dalla macchia, fra le braccia tiene un mitra ancora fumante. Ha i capelli neri lisci, pettinati all’indietro, indossa una giacca militare. Si guarda intorno, lascia penzolare l’arma da una spalla, alza le mani e batte i palmi uno contro l’altro. È un segnale, i colpi smettono del tutto. In quel momento l’uomo vede il ragazzo con la bandiera rossa che lo sta fissando. I loro sguardi si incrociano, il ragazzo non abbassa gli occhi, anzi sembra volere imprimere quel volto nella mente. Allora l’uomo afferra nuovamente il mitra e spara una raffica. Ma Lucio non c’è già più, ha ripreso a correre verso la montagna, ormai vicinissima. Sente fischiare le pallottole sulla testa, vede un riparo, una spaccatura nella roccia, ci si butta dentro.
D’improvviso è buio. Quella crepa, nella quale Lucio è entrato appena, porta a una grotta. Dopo qualche attimo, quando gli occhi si sono abituati all’oscurità, capisce che è alta e profonda. E che deve avere un altro ingresso, il buio infatti non è assoluto ma sul fondo si stempera in un chiarore. Lucio si muove in quella direzione. Intravede le pareti, e qua e là macchie più scure che sembrano animarsi e improvvisamente si alzano in volo. Pipistrelli. Ce ne sono a decine, appesi alle sporgenze della roccia. Lucio si paralizza. Sta per tornare sui propri passi quando percepisce un rimbombo, l’eco di un motore che rallenta e si spegne. Lucio riprende a muoversi verso la luce, sente il tonfo di sportelli che si aprono e si chiudono. Ancora qualche passo e gli arrivano, sempre più chiare, delle voci, che il riverbero trasforma, però, in suoni senza significato. Il ragazzo si avvicina, la luce aumenta, le voci si alzano di volume.
La prima cosa che vede è il muso di un’automobile che gli sembra enorme, l’estremità bombata del cofano, la grande calandra cromata. Sotto, sul paraurti, la targa: NY-32-43. Lucio si sporge e la inquadra tutta. Carrozzeria torpedo rosso fuoco, capote, grandi ruote dipinte di bianco.
Lucio la guarda a bocca aperta. È un’apparizione.
Appoggiato allo sportello del guidatore un tipo sulla cinquantina si passa un fazzoletto bianco sulla fronte sudata. Ha l’occhio destro mezzo chiuso e, mentre si allenta la cravatta aprendo il colletto della camicia, Lucio vede che la gola è attraversata in tutta la sua lunghezza da una cicatrice.
Accanto a lui c’è un uomo di una decina d’anni più giovane, molto elegante, i baffi curati, la fronte ampia con un accenno di calvizie. Muove le labbra, distese da un vago sorriso, e intanto compie una sequenza di gesti che hanno la solennità di un rito: la mano sinistra fa scattare un portasigarette, la destra ne sfila una, la sinistra ripone la scatola d’argento in tasca e, riemergendo, prende tra il pollice e l’indice la sigaretta, una di quelle piatte e aromatiche di concia turca, ne arrotonda l’estremità, e la va a infilare in un bocchino di radica. Mentre lo porta alla bocca, Lucio nota l’unghia, lunghissima, del mignolo della mano destra, che molti fumatori si lasciano crescere per decapitare la cenere.
Dallo sportello posteriore sinistro, intanto, esce un terzo uomo. È il più giovane dei tre, compirà trent’anni a dicembre. Indossa grandi occhiali dalla montatura massiccia su un volto più vecchio della sua età e del tutto dimenticabile se non fosse per le grandi orecchie a sventola, che sembrano tenerlo in equilibrio. Su quel volto aleggia un sorriso soddisfatto, il sollievo e l’orgoglio di chi ha felicemente portato a termine un compito difficile. Dice qualcosa a bassa voce, e anche gli altri due sorridono, il più anziano scoppia proprio a ridere.
In quel momento Lucio capisce che sono gli assassini di suo padre e sua madre.
[da Quello che è Stato di Mimmo Rafele, Fandango, 2020]