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Mie magnifiche maestre. È da piccoli che diventiamo grandi

Negli anni della nostra infanzia e adolescenza vi sono state persone che, talvolta senza nemmeno averne titolo, per noi hanno valso un impareggiabile magistero. Maestre e maestri di vita, per come – non certo seduti su cadreghini da pedagoghi, ma sulle più precarie seggioline che arredano le stanze del buon senso – ci abbiano trasmesso i fondamentali dell’esperienza umana. Tanto che nulla di quanto poi sarebbe accaduto nelle nostre esistenze è risultato incomprensibile, poiché ci portavamo dentro un inconsapevole deposito di saperi.

Ovviamente la vita ha in seguito spiegato meglio le cose, le ha interconnesse, universalizzate, ma dentro noi già ne era posato il ‘presentimento’. E con tale consapevolezza pure di un’altra verità ci siamo fatti certi: non è la Storia ad essere maestra di vita (docente incartapecorita di alunni in fuga) ma le storie minime e plurali della gente che, in un domino ad infinitum, offrono corpo, voce e anima a quella che si è soliti definire umanità.

È a questo tipo di magistero che allude Fabio Genovesi con il suo recente romanzo “Mie magnifiche maestre” (Mondadori) dove singolari precettrici di un’educazione sentimentale risultano essere tutte donne: la madre, la nonna, le zie, le loro amiche. Donne modeste ma grandiose; eccentriche nella normalità, sagge nella dissennatezza. Ormai morte, anzi no. Perché, vive e smaglianti, tornano nei sogni di Fabio, proprio ora (manca una settimana) che la sua età sta per varcare la soglia dei cinquanta. Un compleanno cui non aveva posto mente, dunque inopportuno.

Ma perché le sue magnifiche maestre tornano proprio adesso? Quale allarmante o amorevole premura è questa? Ogni notte un sogno e in ogni sogno una di loro a richiamargli un ricordo, un non-detto, a rendere intelligibile ciò che ieri era sembrato oscuro, a rileggere il passato nella luce (e nelle ombre) dell’oggi. Di cosa vengono ad avvertirlo in quel tempo sospeso in cui la vita esonda nel sogno; quando, del tutto legittimati dal presente, tornano i trapassati, l’aldilà e l’aldiqua sconfinano l’uno nell’altro. E tutti siamo vivi, forse per consolarci reciprocamente.

***

La vita è un sentiero stretto in mezzo a un bosco, sale e scende tra curve, sassi e buche, arriva davanti a un muro e lì finisce.
Ma non per le donne di casa mia. Perché il bosco intorno sono i sogni e le fantasie, il muro in fondo è la morte, e ai sogni e alla morte loro non hanno creduto mai.
Anzi, ci credono più degli altri, che considerano i sogni la fine della realtà e la morte la fine della vita. Per loro invece niente finisce sognando, niente morendo, tutto è sempre vero e sempre vivo. E visto che un terzo della nostra esistenza lo passiamo addormentati, e chissà quanto resteremo morti in attesa del Giudizio Universale, senza questi due confini a chiuderci non c’è nessun sentiero stretto e nessun muro in fondo, così la vita si spalanca in un mare sconfinato.
Questa è la storia delle donne di casa mia, e della settimana in cui sono tornate per raccontarmela. Sono morte, ma mi parlano nei sogni, perché appunto alla morte e ai sogni non hanno creduto mai. Tutto è sempre vero e sempre vivo. Non lo puoi comprendere, ma ti viene a sorprendere, ti viene a prendere.
Come il canto delle cicale si prende il giorno.
Non cala, non varia, vibra di una sola nota ma così piena da essere acuta e grave insieme, altissima e profonda, così forte da scuotere l’afa immobile, le teste intricate dei pini, e me. Viene da mille alberi, migliaia di rami, ma è un’unica musica mistica intorno, addosso, dentro.
Quando sei piccolo ti raccontano la favola della formica operosa e previdente, che passa l’estate tra i sassi a raccogliere il cibo e metterlo via per l’inverno, mentre lassù la cicala sfaticata se ne sta giorno e notte a cantare. Poi l’inverno arriva, la cicala ha tanta fame e scende a chiedere inutilmente un boccone alla formica, che si gode il frutto dei sacrifici nel suo riparo caldo mentre la cicala si spegne nel gelo, senza cibo da mangiare né voce per cantare.
Povera cicala, pensavo da bambino. Invece povere formiche, poveri noi.
Passiamo la vita a testa bassa per raccattare le briciole e non possiamo saperlo, ma quel canto è antico e immenso, parte dal profondo della terra e sale a carezzare il cielo.
La cicala nasce nei campi, alla prima pioggia di settembre che sciacqua via l’estate, ma subito scende sottoterra dove resta sola, ferma e zitta, per anni. Alcune specie fino a diciassette. Diciassette anni là sotto, succhiando linfa dalle radici e preparandosi a una sera d’estate, quando tutte le cicale si muovono all’unisono, salgono ed escono nell’aria calda, si inventano le ali per volare sugli alberi, e avviano il canto.
Come ogni musica della natura, la loro è una canzone d’amore. Un richiamo ai loro simili, e insieme tanto di più: le altre cicale lo sentirebbero anche se fosse forte la metà della metà, ma quel canto non è solo per loro. È per l’albero che le regge e per gli altri che sorreggono lui, è per il disegno che i rami formano incrociandosi a incorniciare il cielo, è per quel cielo che tutto abbraccia nel calore profumato dell’estate.
E quanto l’estate il canto dura. Poi il caldo finisce e finisce lui, finisce la cicala. Che scende dal ramo, semina i futuri figli a terra e lì si spegne. Non va dalla formica a pietire qualche briciola per l’inverno: la cicala nasce con l’estate e con lei muore. L’inverno non è un problema, per la cicala l’inverno non esiste.
Esiste un’unica stagione, un attimo infinito a cui dedica una musica preparata per anni e anni sottoterra. Dove la formica non la vede e non sa immaginarla, non può capire la sua inutile importanza, quell’urgente necessario spreco di bellezza, che è l’unico modo per dare l’amore.
Non lo capiamo nemmeno noi. Come fanno le cicale a uscire tutte insieme nello stesso momento? Come sanno, ognuna sottoterra per conto suo, che dopo diciassette anni stasera è la sera in cui si torna e si canta? Non ne abbiamo idea.
È un ritorno assurdo e impossibile, però necessario, allora tornano.
Così le cicale, così le donne di casa mia. Le mie magnifiche maestre.
Ho avuto la fortuna di crescere tra molti maestri favolosi, che non volevano darmi nessuna lezione e per questo mi hanno insegnato tanto.
Insegnamenti diversi, nei modi e nei tempi. Più bruschi e immediati quelli dei miei uomini, ruvidi, dritti, subito a scuotermi e spingermi mentre cercavo di diventare un uomo anch’io. Quelli delle mie donne invece – le nonne, le zie, le loro amiche – mi sono colati dentro dai loro sguardi, senza grida o spinte mi hanno parlato dal profondo di lunghi silenzi, di certi eroici sorrisi quando ci voleva molta più forza per un sorriso che per un urlo o uno schiaffo. Così sono entrate in me, scivolandomi lisce nel profondo senza che me ne accorgessi, e lì sono rimaste ferme e zitte per anni come le cicale sottoterra, a nutrirsi della linfa che sono le lacrime, il sudore, lo stillare dell’ansia, il ribollire della gioia, i succhi dolci e amari della vita che in qualche modo va.
Fino alla sera in cui si muovono e tutte insieme tornano su, e tu non sai chi sono né da dove vengono, non le conosci ma subito le riconosci, e capisci quanto ne hai bisogno. Ti abbracciano e sono tue, sono te.
Le donne di casa mia, colate in me tanto tempo fa, quando io ero piccolo e loro vive. Tornano adesso da morte, tornano in sogno, ma ai sogni e alla morte non hanno creduto mai. Non sono la fine di qualcosa, sono l’inizio. Del loro canto smisurato nel tempo e nello spazio, che parte da sottoterra e si spande nel cielo, è appena nato ma stava da sempre in me. In ognuno di noi.
Questa è la storia impossibile e necessaria delle donne di casa mia. Del loro canto sconfinato che adesso è il mio, è il nostro, e come noi durerà per sempre. Fino alla fine dell’estate.

[da Mie magnifiche maestre di Fabio Genovesi, Mondadori, 2025]

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