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Micòl Finzi-Contini e la pragmatica avversione per il futuro

Micòl – la bella, colta, sfuggente, anticonvenzionale ragazza, protagonista del “Giardino dei Finzi- Contini” di Giorgio Bassani – resta uno dei personaggi più affascinanti della letteratura italiana. Come osservò Eugenio Montale in un articolo apparso sul Corriere della Sera il 28 febbraio 1962, “con molta scaltrezza Bassani non ce l'ha mai descritta e solo induttivamente possiamo attribuirle tutte le volubilità della ragazza di spirito e tutte le durezze di una donna viziata…”. Eppure è lei ad aver capito tutto, ad avere profonda consapevolezza delle cose della vita. E perciò si sottrae anche al sentimento dell’amore, perché, le fa dire Bassani, “l'amore – così, almeno, se lo immaginava lei – era roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda; uno sport crudele e feroce, ben più crudele e feroce del tennis!, da praticarsi senza esclusione di colpi e senza mai scomodare, per mitigarlo, bontà d'animo e onestà di propositi”. In Micòl c’è un pragmatismo disarmante, una avversione per il futuro che si rivela premonizione alla tragica fine di lei e della sua famiglia, deportati e morti in un campo di concentramento tedesco.
 
 
Quanti anni sono passati da quel remoto pomeriggio di giugno? Più di trenta. Eppure, se chiudo gli occhi, Micòl Finzi-Contini sta ancora là, affacciata al muro di cinta del suo giardino, che mi guarda e mi parla. Nel 1929 Micòl era poco più che una bambina, una tredicenne magra e bionda con grandi occhi chiari, magnetici; io un ragazzetto in calzoni corti, molto borghese e molto vanitoso, che un piccolo inconveniente scolastico bastava a gettare nella disperazione più infantile. Entrambi ci fissavamo. Al di sopra della sua testa il cielo era azzurro e compatto, un caldo cielo già estivo senza la minima nube. Niente avrebbe potuto mutarlo, sembrava, e niente infatti l'ha mutato, almeno nella memoria. «Allora vuoi, o non vuoi?» incalzò Micòl. «Ma… non so…» cominciai a dire, accennando al muro. «Mi sembra molto alto.» «Perché non hai visto bene» ribatté impaziente. «Guarda là…, e là», e puntava il dito per farmi osservare. «C'è una quantità di tacche, e perfino un chiodo, quassù in cima. L'ho piantato io.» «Sì, gli appigli ci sarebbero, per esserci» mormorai incerto, «ma…» «Appigli?!» mi interruppe, scoppiando a ridere. «Io per me le chiamo tacche.» «Male, perché si chiamano appigli» insistei, testardo e acido. «Si vede che non sei mai stata in montagna.»
[…] Girai di nuovo gli occhi verso Micòl. Mentre parlavo, si era messa a sedere sul muro, volgendomi la schiena; e adesso alzava decisa una gamba e si poneva a cavalcioni. «Che cosa stai combinando?» domandai, sorpreso. «Mi è venuta un'idea per la bicicletta, e intanto ti mostro i punti dove è meglio mettere i piedi. Sta' bene attento a dove li metto io. Guarda.» Volteggiò molto disinvolta lassù in cima, quindi, afferratasi al grosso chiodo rugginoso che mi aveva indicato poco prima, cominciò a scendere. Veniva giù adagio ma sicura, cercando gli appoggi con le punte delle scarpette da tennis, ora con una ora con l'altra, e sempre trovandoli senza troppa fatica. Scendeva bene. Tuttavia, prima di toccare terra, le mancò un appoggio e scivolò. Cadde in piedi. Ma si era fatta male alle dita di una mano. Inoltre, strusciando contro il muro, il vestito di tela rosa, da mare, le si era sdrucito leggermente sotto un'ascella. «Che stupida» brontolò, portando la mano alla bocca e soffiandoci sopra. «È la prima volta che mi succede.» Si era anche sbucciata un ginocchio. Tirò su un lembo del vestito fino a scoprire la coscia stranamente bianca e forte, già da donna, e si chinò a esaminare l'abrasione. Due lunghe ciocche bionde, di quelle più chiare, sfuggite al cerchietto di cui si serviva per tenere a posto i capelli, ricaddero in giù, a nasconderle la fronte e gli occhi.
[…] La mia storia con Micòl Finzi-Contini termina qui. E allora è bene che anche questo racconto abbia termine, ormai, se è vero che tutto quello che potrei aggiungervi non riguarderebbe più lei, ma, nel caso, soltanto me stesso. Di lei e dei suoi ho già detto in principio quale sia stata la sorte. […] Certo è che quasi presaga della prossima fine, sua e di tutti i suoi, Micòl ripeteva di continuo anche a Malnate che a lei del suo futuro democratico e sociale non gliene importava un fico, che il futuro, in sé, lei lo abborriva, ad esso preferendo di gran lunga «le vierge, le vivace et le bel aujourd'hui», e il passato, ancora di più, a il caro, il dolce, il pio passato E siccome queste, lo so, non erano che parole, le solite parole ingannevoli e disperate che soltanto un vero bacio avrebbe potuto impedirle di proferire, di esse, appunto, e non di altre, sia suggellato qui quel poco che il cuore ha saputo ricordare.
 
[da Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani]  

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