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Malinverno. Immaginate un paese ammorbato dalla lettura…

Un libro dove si racconta di un paese in cui gli abitanti vanno “spargendo come untori il morbo della lettura” non poteva certo sfuggirci (è la nostra mission). Eccoci dunque a segnalare “Malinverno”, l’ultimo romanzo di Domenico Dara, notevole raccontatore di storie che sa guardare la realtà ribaltandola, a suo piacimento, in mondi fantastici. Il paese in questione è Timpamara, dove le pagine dei libri volano nell’aria e tutti possono farle proprie, leggerle, sognarci sopra, confonderle con la vita. È così da quando all’antica cartiera venne affiancato il maceratoio. Da allora fu cosa normale che gli operai salvassero qualche libro destinato al macero per leggerlo. “E quando non erano le mani degli operai a seminare parole di carta, ci pensava il vento, il ponente che arrivava dal mare e afferrava quei fogli dai camion, dalle vasche, dai mucchi accatastati nel cortile e li faceva svolazzare nell’aria, stormi di romanzi francesi, sciami di prontuari per i sogni”. Frequentatore abituale del maceratoio è Astolfo Malinverno, bibliotecario del paese che recupera libri, ne modifica il finale e li mette a disposizione del pubblico. Quando poi Astolfo, per carenze di pianta organica, viene nominato anche custode del cimitero comunale, la sua immaginazione si scatena ulteriormente mescolando le storie dei romanzi con quelle dei morti, dei vivi che visitano il cimitero, dei frequentatori della biblioteca, di chiunque incontri in questo doppio incarico. La fervida fantasia di Astolfo Malinverno ha un ulteriore sussulto il giorno che nel cimitero nota una lapide senza nome e senza date; soltanto la foto di una donna molto bella. Stabilisce che costei è la sua Emma Bovary, la cui vicenda è per lui abituale balsamo per lenire paturnie e malinconie: “Questa lettura tornava nella mia vita ogni volta che avevo bisogno di consolazione, quando avvertivo cioè la necessità di annacquare la mia tristezza nel mondo e sentirmi così parte dell’umanità illusa e dolente”. Astolfo è completamente preso dalla sua Emma, da quel volto pallido ed enigmatico. Un mistero che ne va a incrociare un altro, allorché gli appare una giovane sconosciuta di nero vestita. Insomma, una storia che nemmeno la vivace fantasia di Malinverno avrebbe saputo architettare: “Mi sembrò per un attimo che ogni cosa nel mondo – anche i pensieri, anche i sentimenti, anche i morti – avesse la sua giusta collocazione nell’universo. Anche io, Astolfo Malinverno, l’unico bibliotecario guardiano di cimitero che l’umanità abbia mai avuto”.
 
***
 
Quando venni al mondo avevo dodici anni, cinque mesi e centosessantaquattro ore. Perché non nasciamo il giorno in cui vediamo la luce, nell’attimo in cui braccia sconosciute ci trascinano nell’infinito e indecifrabile corso della storia, ma molto prima, quando il pensiero di noi si è insinuato nella mente ancora libera di uomini e donne, quando il nome d’un essere inesistente appare nell’orizzonte sfumato d’una vita possibile. Siamo fatti di pensieri più che di carne, e quei pensieri ci vengono distillati nel sangue dalle idee di chi ci ha voluti, così che noi ereditiamo non solo il colore dei capelli o l’arrendevolezza degli sguardi o la cedevolezza del cuore, ma anche le illusioni, le speranze, i rimpianti della nostra ascendenza, che a sua volta li ha ereditati ancora più in là, e ancora più in là, attraverso generazioni di erecti e rudolfensi, fino a giungere al primo uomo, cosicché ognuno porta in sé miniaturizzata la storia dell’umanità intera.
Come possibilità, ipotesi, progetto, io dunque esistevo precisamente dalla sera in cui mio padre pensò che avere un figlio sarebbe stata l’unica maniera per dimenticare di non esserlo stato lui. E fu a causa di Monsieur de Balzac se la mia vita cominciò ad affacciarsi dalla miriade di altre ipotesi. Di Honoré e di Curzio Verbicaro, stagnino da quattro generazioni e appassionato teatrante, che quell’estate si mise in testa di far rappresentare alla sua scalcagnata compagnia una riduzione di Papà Goriot da sé medesimo scritta.
Vito era seduto vicino alla madre, in seconda fila, e mentre sentiva il vecchio Goriot declamare l’amore per le figlie o lo vedeva piangere quando le abbracciava, senza sapere perché, come altre volte, si commuoveva.
Vito Malinverno, mio procreatore, un padre poteva solo sognarselo, che il suo gli era morto da piccolo, ma se c’era al mondo un sentimento capace di mitigare e curare il senso d’abbandono forse era quello di Goriot, forse solo l’amore smisurato e incondizionato di padre poteva bilanciare quello di figlio mancato. E fu in quel momento, nel mezzo d’una serata estiva, mentre le campane suonavano a morto su Parigi, mentre Eugène de Rastignac col mantello nero attraversava il cimitero di Père Lachaise, fu proprio allora, nello stesso attimo in cui chissà quanti ignoti Goriot morivano tra Timpamara e la cittàlumière, che io nacqui nella storia dell’umanità.
Quando venni al mondo, l’orologio della chiesa segnava le ore sei e ventisei del giorno trenta del mese di novembre dell’anno millenovecentotrentacinque, tre settimane dopo Alain Delon e il giorno prima di Woody Allen, dei quali io non fui certo una sintesi riuscita.
Non era un tempo opportuno per nascere: l’Italia aveva aggredito l’Etiopia ricevendone in cambio l’embargo delle potenze demoplutocratiche. Venni al mondo insieme alla politica autarchica, in epoche di ristrettezza economica in cui l’aratro tracciava il solco e la spada lo difendeva, tra infusi di carcadè e sciarpe di lanital, fumi di lignite e caffè di cicoria, circondato da coniglicultori in serie e affezionati d’olio di ricino.
Venni al mondo in tempi di ristrettezza esistenziale.
Figlio unico, se non per pochissimo tempo e non in questa vita, nacqui zoppo a causa di uno sbilanciamento corporeo che era segno fisico dei tempi squilibrati che il mondo viveva e della cecità di Natura che, dispensando nella stessa portata Vita e Morte, talvolta difetta nella scelta.
Della mia congenita mancanza non si accorsero subito. Quando mi prese in braccio appena nato, Vito Malinverno capì che non si era sbagliato, che amare il mio piccolo corpo sarebbe stata la sua consolazione, che l’unico modo che gli uomini hanno di miticare un destino malavventurato è non farlo rivivere ai propri cari. Furono necessari quattordici mesi per accorgersi della mia zoppitudine, che fin quando stavo in braccio ero come gli altri: quando dormivo, quando mi vestivano, quando mi reggevano in piedi per farmi saltellare ero come tutti, sospeso nell’egualitario regno dell’aria. Ma poi tentai i miei primi passi, sofferti e rallentati come un allunaggio.
Caddi.
Mio padre mi lasciava, tentavo il primo passo e cadevo. Un passo e rovinavo. E poiché fu così per qualche giorno, mi portarono dal medico condotto, che misurò le gambe con un metro come si fa con le tavole di noce tanganica e proferì verdetti di diversità minima, due tacche di metro, la sinistra più corta. Finii d’essere come gli altri bambini.
“Non c’è niente da fare?” chiese il padre.
“Niente.”
E Vito tornò a casa come da un funerale, stringendomi al petto che mi amava più di prima, perché adesso il suo amore già esteso doveva allungarsi di ulteriori due centimetri e divenire la carne assente, perché chi ama, appena scopre nell’altro un cedimento o una manchevolezza, non ha altro scopo che apparare e livellare, che forse a questo serve l’amore, a sentirci necessari, a essere lo stucco sulle incrinature dei vetri, la toppa sugli strappi dei tessuti, il punto tra le pelli lacerate.
Mi chiamo Astolfo Malinverno. In qualunque altro paese del mondo sarebbe un nome memorabile, stravagante, di quelli che quando lo pronunci in classe i compagni si mettono a ridere, ma per fortuna attecchii a Timpamara, nel posto giusto, a conferma che con le nascite si compiono profezie di giustezza.
Qui sorgeva la più antica cartiera della regione.
Era stata aperta a metà dell’Ottocento dall’allora intendente della Provincia don Gaetano Caccuri, che dopo attente analisi e vagliamenti nelle zone optò per questo paese, formalmente per la ricchezza dei boschi e la limpidezza delle acque, in realtà perché si era innamorato della bellezza di Catàra Casabona, per la cui verginità abbandonò moglie e figlie. E così, il destino dei timpamarani dovette il suo venturato corso alle grazie celate e minute della figlia di un pellaio puzzoso, e forse anche questo fu l’avverarsi d’una strampalata profezia.
Agli inizi del Novecento, quando il tempo annientò le bellezze di Catàra e il Diluvio Universale che ciclicamente si riversava su quella terra distrusse mezzo paese, l’intendente si ritirò e vendette ciò che restava della cartiera a Saverio Settingiano, ricco industriale del capoluogo deciso a investire in quella i suoi guadagni: ufficialmente perché la cartiera continuava a rappresentare una risorsa indispensabile per l’economia della zona, in realtà perché si era innamorato della toracica prosperità di Angelica Saracena, per le cui pettorute abbondanze abbandonò prole e consorte, la qual cosa venutasi a sapere, le mogli degli industriali si guardarono bene dal mandare più i mariti in quei luoghi.
Settingiano, industriale caparbio, decise di unire utile e dilettevole ampliando la cartiera con la costruzione del maceratoio. In pochi anni, Timpamara fu conosciuta come il paese della carta: ogni settimana venivano scaricati quintali di riviste, giornali, manifesti, locandine, cartelle, documenti, e soprattutto migliaia e migliaia di vecchi volumi destinati al macero.
Il nuovo impianto diede respiro alla comunità ed evitò che il meglio di quella gioventù fosse risucchiata dal vortice della migranza che svuotava i paesi vicini, destinandoli alla secchezza.
Per una terra che vantava un’antica tradizione di conciatori di pelli, macerare quelle fibre fu quasi un sollievo, e la docilità della carta lisciò le callosità delle antiche mani bruciate dagli acidi e indurite dalla pesantezza delle zappe. Anche l’animo irruvidito di quegli uomini subì misteriose metamorfosi.
Tutto cominciò quando qualche operaio, prima di buttare le pagine nell’acqua, cominciò a darci un’occhiata, forse solo alla foto del rotocalco, poi alla notizia sportiva, alla fine il tempo non bastava per leggere tutto l’articolo, e allora lo strappava e lo portava a casa, magari per farselo leggere dai figli, e così fu consuetudine riconoscere i lavoratori del macero dai pezzi di carta che fuoriuscivano dalle tasche dei pantaloni o della giacca. Da quei fogli ai libri il passo fu breve, e poiché c’erano settimane che al maceratoio giungevano solo carichi di volumi, gli articoli strappati dei giornali furono sostituiti da fascicoli slegati, capitoli rimaneggiati, racconti senza copertine. Gli operai arrivavano a casa la sera e dopo cena si sedevano sul divano, prendevano le pagine spiegazzate e le leggevano o le facevano leggere in famiglia, spargendo come untori il morbo della lettura. E quando non erano le mani degli operai a seminare parole di carta, ci pensava il vento, il ponente che arrivava dal mare e afferrava quei fogli dai camion, dalle vasche, dai mucchi accatastati nel cortile e li faceva svolazzare nell’aria, stormi di romanzi francesi, sciami di prontuari per i sogni, e gabbiani con le ali dei Miserabili, rondini con al becco le peripezie di Gulliver, e frammenti dei Dialoghi di Platone confusi col polline dei platani. In ogni angolo di Timpamara, su davanzali, panchine, portabagagli delle auto, sui sacchi della spazzatura e perfino sui cappelli delle signore, poteva trovarsi la pagina di un romanzo: quando le genti la raccoglievano la leggevano, e se non piaceva non la buttavano ma l’appoggiavano da qualche parte, nella fioriera del marciapiede o su un gradino, fermata da una pietra affinché qualcun altro la prendesse; se piaceva, invece, la portavano a casa e la conservavano. Leggevano tutto e tutto serbavano, i timpamarani, quasi a contrappesare il destino di distruzione del macero: lì i libri venivano cancellati, loro invece li tenevano in vita.
 
[da Malinverno di Domenico Dara, Feltrinelli, 2020]  

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