L’oidio, altrimenti detto malbianco, nebbia, albugine, è una malattia delle piante causata da un fungo parassita che può portare gli alberi fino alla morte. E “Malbianco” è il titolo scelto da Mario Desiati per il suo ultimo romanzo che narra una storia in cui il protagonista, Marco Petrovici, vuole scoprire le ragioni dell’albugine che avvolge la storia della sua famiglia e che, al pari del malefico fungo, avverte come minaccia letale.
Marco, voce narrante, è un quarantenne “spatriato e nevrotico” che produce contenuti per siti, blogger, influencer. Vive a Berlino, dove si è trasferito dalla natia Puglia, fino a quando un giorno iniziano a manifestarsi capogiri e svenimenti. Preoccupato, rientra in Italia per fare gli opportuni accertamenti (in Germania costerebbero troppo). Torna quindi dai genitori, Use e Tonia, verso i quali prova adesso un senso di colpa per averli abbandonati e delusi nelle loro aspettative. Tant’è che non ripartirà più. I due anziani, ormai ultraottantenni, abitano una casa immersa tra querce e lecci della campagna tarantina.
Nuovamente a contatto con l’humus delle origini, in quella “casa nel bosco su cui pendeva il passato migliore e peggiore della mia esistenza”, si convince che i suoi malesseri siano in qualche modo legati alla storia della famiglia, a cominciare da quel cognome insolito e dalla cortina di nebbie, silenzi, ritrosie dietro cui è stata sempre nascosta una memoria famigliare. È lì che Marco intende addentrarsi e così scoprire la vita segreta della bisnonna Addolorata, una trovatella; di nonno Demetrio, reduce di guerra, e di suo fratello Pepin, suonatore di violino, anche lui un reduce, fante dell’VIII Armata della Seconda guerra mondiale, l’Armir, sconfitta dai russi dopo l’operazione Barbarossa. Giusto una vaga immagine di Pepin che suona il violino nella città innevata è rimasta misteriosamente impressa nella memoria di Marco allora bambino: “Chi suona avanza in fondo al ponte dalla città vecchia.
Procede verso la parte nuova portandosi dietro il passato del luogo da cui proviene, o forse solo lo spettro di una visione. È anziano, cammina lento, sembra tenuto in piedi dalle corde del violino. Indossa una divisa d’un verdone sbiadito, le spalline larghe e il berretto alto.” Insomma, sono tanti i misteri dei Petrovici e delle storie da cui provengono. Forse è parte di quelle storie anche un’antica ninna nanna yiddish da quasi cent’anni tramandata in famiglia.
Marco indaga con l’aiuto della zia Ada, di un diario fortunosamente ritrovato, e non di meno attraverso libri di storia, letteratura, psicoterapia. È sempre più persuaso che il “malbianco” che soffoca i Petrovici sia nelle radici. Ed è qui la forza del romanzo: nel modo con cui l’autore investiga il nesso tra l’individuo e le proprie origini. Fino a dilatare una taciuta storia famigliare alla memoria collettiva del nostro Paese, anch’essa rimossa dietro la nebbia della reticenza: quella della Seconda guerra mondiale, in particolare della spedizione italiana in Russia e della dimenticata deportazione in Germania degli internati militari italiani dopo l’8 settembre 1943.
Con il rigore dell’analisi che non concede sconti a pudori e pregiudizi, con sottigliezza psicologica, cura storiografica, inserti di autentico lirismo, Desiati offre un intenso racconto di respiro universale.
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Fu allora, in un tardo pomeriggio berlinese, con l’aria livida d’argento e cenere, che cominciai a svenire.
Non sono mai stato un uomo vigoroso e pienamente in salute, ma in quella primavera di cinque anni fa le cose presero una forma diversa.
La prima volta stavo impalato a una fermata dell’autobus, gli occhi fissi nel vuoto per non incrociare sguardi e oggetti che potessero mettermi a disagio. Guardare in alto fa cadere, guardare per terra ti rende insopportabili i piedi della gente. In quei giorni ero turbato da dettagli sciatti e insignificanti, il respiro pesante dei pendolari nei tram affollati, il vociare scomposto di anziani turisti, l’aggressività da branco dei giovani maschi. Durante uno di quei momenti sbiaditi, avvertii la camicia bagnarsi d’un sudore sgradevole, estraneo. I battiti del cuore rutilanti nel petto, il respiro affannoso che soffiava dalle narici: i tendini cedettero, e i colori della città divennero un’indistinta macchia di catrame.
Nel tempo dello svenimento percepisci soltanto il nero e il bianco. Più nero che bianco prima di svenire, più bianco che nero al rinvenire dei sensi. La prima volta ne uscii a pezzi. Intontito, spaventato, umiliato. I vestiti puzzavano d’asfalto, e attorno a me ombre ignote mi domandavano «Alles gut?» Sotto il naso, il profumo di un disinfettante che qualcuno mi aveva fatto annusare. Non sapevo ancora che nel piccolo incidente ero stato abbastanza fortunato.
Dopo il primo svenimento, temendo che potesse accadere di nuovo, cominciai a soffrire di attacchi di panico. C’ero già passato da giovane e forse da bambino, ma il panico è paura incontrollabile, anche quando se ne è consapevoli. Facile dirsi di stare calmi, facile ripetersi di respirare e aspettare che passi. Il respiro è sabbia, il cuore è una pietra. Come tutti i nevrotici abbozzai l’autodiagnosi in rete. Scorrevo il telefono nel cuore della notte con l’affanno. I pensieri intrusivi di solito aggrediscono alle quattro del mattino, quando il confine tra sogno e risveglio è labile.
Così iniziai a sopravvivere tra uno svenimento e l’altro, con la paura, l’ansia che si nascondeva a volte nella pancia, altre nel collo, altre sulla fronte. Vivevo in Germania dopo anni di giri per l’Europa con addosso l’etichetta di nomade digitale, lavori nel terziario, multinazionali talmente anonime che nemmeno conoscevo i miei capi di persona.
Nonostante diversi anni di psicoterapia mi ritenevo un fallito totale, un buono a nulla, un fuggitivo, un vile. Non avevo mai smesso di duellare con la «colpa» di non essere il figlio che i miei genitori speravano, e non c’era comunicazione tra noi in cui non mi chiedessero quando sarei tornato a casa.
Mia madre, Tonia Zizzi, è oggi una maestra in pensione. Si era conquistata il suo lavoro e i suoi studi a dispetto di un padre dalle vedute che definire ristrette sarebbe eufemistico, offeso a morte con lei perché, invece di fare solo la moglie e la figlia accudente, lavorava. Mio padre Giuseppe, detto Use, era stato un commercialista molto attivo nella politica della città di Taranto. Acciaccato da vari mali cronici, s’era appena ritirato con mia madre in una casa nel bosco su cui pendeva il passato migliore e peggiore della mia esistenza.
A loro devo la cosa più significativa che ho: il mio nome, Marco. Per tutta la vita reggiamo un nome che è stato scelto da altri, ma le conseguenze e le implicazioni sono nostre. Ho sempre creduto che in un nome si nascondano le emozioni, le speranze e a volte anche le frustrazioni di chi l’ha scelto. Nel nome c’è il desiderio consapevole o inconsapevole di chi quel bambino si desidera che diventi.
Marco Petrovici fu scelto per portare unità e continuità nella famiglia. Non potevano sospettare quanto Marco Petrovici, invece, ci avrebbe incasinato.
Quando vivevamo ancora in città, dalla finestra si guardava il Mar Piccolo e le rondini disegnavano strane forme nel cielo durante le migrazioni da sud. Demetrio Petrovici, il soldato poeta, il maestro, il padre di Use, il nonno che avevo perso a cinque anni ci aveva insegnato a osservarle e a dare un nome a quelle creature.
Morì nel suo letto una domenica di settembre. Tutti lo aspettavano a tavola, ma lui s’era steso perché si sentiva stanco. Amavo stare con lui perché mi insegnava a dare i nomi alle rondini e alle erbe che raccoglieva, e mi faceva mangiare le pesche bagnate nel vino. Non mi rassegnavo a pranzare senza nonno. Lo andai a tirare giù dal letto, e una volta in camera gli presi le dita delle mani dure come sterpi. Senza sapere il contegno da adottare in una situazione del genere, raggiunsi gli adulti e annunciai che il nonno dormiva per sempre. «Per sempre» lo scandii con voce fievole, ma la paura lo rese solenne. Nessuno mi credette. Mi dissero che si sarebbe svegliato nel pomeriggio, quando ce ne saremmo andati dopo il caffè.
E invece due giorni più tardi mi ritrovai su una barca con il corpo di nonno Demetrio composto in una divisa da ufficiale dentro una bara di noce chiaro. L’uniforme militare lo rendeva ancora più morto, e al contempo più grande, come se contenesse un uomo diverso da quello che era stato in vita. I miei erano seduti ai lati della cassa, a prua, rivolti verso i lati opposti: sembravano una scultura qualsiasi di una delle chiese barocche di Martina Franca. Il giro d’onore tra le Cheradi fu organizzato per permettere a Demetrio di salutare un’ultima volta il mare e l’isola del generale napoleonico De Laclos, oggi chiamata San Paolo: per anni tetra custodia di una fortezza, ma su cui lui amava trascorrere interi pomeriggi a pensare alle sue poesie. Le barche con gli altri parenti e gli amici solcavano il mare con vessilli tricolori e le percussioni sorde e vaghe di una grancassa. Il ritmo di quei colpi mescolato allo sciabordio delle onde sotto gli scafi creava un effetto così solenne che anni dopo avrei pensato che si vive una vita intera solo per essere onorati almeno un po’ quando si muore.
Uno stormo di rondini colorò l’azzurro con le sue scure acrobazie, e mia madre disse a mio padre: – Almeno sappiamo che adesso è in paradiso –. Mi colpirono quella frase e la smorfia di presagio che comparve sui loro visi.
Il nonno dava i nomi alle rondini perché diceva che ogni sera trasportano le anime dei morti nell’aldilà. Se manca anche soltanto una rondine, Dio si fa triste. Seduti insieme sotto la finestra del soggiorno, ci divertivamo a dar loro i nomi dei grandi eroi risorgimentali. Ecco la rondine di Giuseppe Garibaldi, no, è la rondine di Margherita di Savoia, la regina è tornata a prendersi la corona! Era un umorismo tenero e innocuo, il nostro, ma anche una forma di religiosità misteriosa.
[da Malbianco di Mario Desiati, Einaudi, 2025]