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Le divaganti esplorazioni di un critico-scrittore per approdare “Da ogni dove e in nessun luogo”

“Qualcosa è stato per noi un colloquio quando ha lasciato in noi qualcosa”: son parole di Hans George citate da Francesco Ricci, docente di letteratura italiana e latina al liceo classico Piccolomini di Siena, nell’introduzione al suo libro più recente: "Da ogni dove e in nessun luogo"(pp. 172, € 16,90, Becarelli, Siena 2014).

Un volume estroso e sparviero, dove il critico-scrittore prende spunto da un testo per divaganti esplorazioni e sintomatici collegamenti. Talvolta si tratta di escursioni tra versi e spartiti musicali, altre tra lirica e filosofemi. L’eccitante incursione corsara la vince sulla razionale prudenza, in barba al paludato storicismo che ha irrigidito i programmi scolastici per decenni. Anche da seguitissimo insegnante Ricci adotta una pedagogia indisciplinata, allergica a circostanziate cronologie ed elencatorie bibliografie. Così vengono chiamati alla ribalta, a sorpresa, Auden e Baudelaire, D’Annunzio e Faulkner, Goethe e Pasolini, Pavese e Saba, Tasso e Tolstoj, Trasnströmer e Wilde in voluto disordine.

Nel capitolo su "La bellezza matura" Ricci viviseziona il sonetto 592 di Torquato Tasso, dedicato a Lucrezia d’Este (“Già solevi parer vermiglia rosa”), innovativo rispetto alle lodi profuse di consueto in abbondanza all’indirizzo di fresche giovincelle. Dapprima l’autore dà la parola a Leopardi, che, avvinto dall’altera Fanny, si sbilanciò fino a sentenziare che una trentenne “è più atta a ispirare, e maggiormente a mantenere, una passione”. Quindi, mutando di colpo registro, afferma che “la poesia (e l’arte in generale), al pari dell’amore, sa essere bugiarda, fa credere che la fuga del tempo possa venire fermata”. Fa capolino la manganelliana teoria della “letteratura come menzogna”. Altro che confessione del vissuto o abbraccio di sensazioni allora! Artificio e verità felicemente contrastano. E i ben torni versi adulano e ingannano.

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