L’ultimo romanzo di Silvia Avallone, “Da dove la vita è perfetta”, è un affresco a tinte forti dove si intrecciano temi che spesso convivono e collidono: la maternità, la paternità, il rapporto genitori-figli (talvolta a ruoli invertiti, con i figli chiamati a fare da genitori ai loro stessi genitori), la solitudine, scelte e vizi sbagliati, il desiderio di rivincita (persino di redenzione), l’attesa che qualcosa accada perché qualcosa dovrà pure succedere. Tutto ciò vissuto in un quartiere di periferia che, per quelle esistenze, è reclusione (fisica e mentale); è la condizione per la quale sarà loro impossibile poter cambiare i propri destini. Poiché – così si avverte il lettore – è “un quartiere con molte strade e nessuna via d’uscita”. È in tale contesto che si incontrano le storie di Adele, una ragazzina che sta per dare alla luce una bambina dalla quale verrà subito separata; Dora, trentenne, portatrice di handicap, anch’essa sul procinto di partorire un figlio-ragione-della-sua-vita; Zeno, lo studente di liceo classico, che è poi il narratore, il punto d’osservazione, in quanto destinato a non vivere per sé, ma ad osservare (aiutare) le esistenze altrui. Chissà se per queste vite ci sarà un punto, un momento, un andare-oltre in cui la vita sembrerà perfetta. E quale prezzo si dovrà pagare per questa illusione.
L’aveva chiamata Bianca. Come le cose bianche. Come le cose pulite e piene di luce.
L’aveva chiamata così tante volte nella sua testa, specialmente nei giorni peggiori. A bassa voce, chiusa a chiave nel bagno. Alla fermata dell’autobus quando non riusciva a dormire, quando non c’era un solo posto dove potesse andare – con quella pancia.
Ne aveva seguito i movimenti dei piedi, dei gomiti, delle ginocchia attraverso la pelle. L’aveva sognata. E provato a indovinarla dalle immagini delle ecografie. Ma adesso che la vedeva per la prima volta, capiva che non era né conosciuta né ignota.
Era sua. Così tanto sua da schiantarle il cuore.
Aveva creduto di non farcela, fino a un istante prima. Aveva sentito gli occhi rovesciarsi, le forze che se ne andavano. Solo un dolore immenso e accecante. E la testa di Bianca incastrata dentro, che le spaccava in due il bacino. Aveva pensato: Adesso muoio. Va bene così. Lei nascerà in qualche modo. Aveva pensato: La tireranno fuori. Questo è l’importante. E a me mi butteranno via, come un guscio che non serve più. A Marilisa che le gridava di spingere ancora, aveva sussurrato: «No, non ce la faccio».
E aveva chiuso gli occhi.
La sala operatoria era nella stanza accanto, sapeva che c’era sempre un chirurgo pronto per un cesareo d’urgenza. Solo che poi aveva avvertito qualcosa in fondo al corpo. Un richiamo così remoto, come da una galassia senza nome. Così potente.
Voleva vederla. Questo aveva sentito. Che voleva conoscerla. Che voleva metterla al mondo lei.
Allora aveva spinto. Ancora una volta.
L’ultima.
Con quale forza, non sapeva, con quale fiato.
Mentre Marilisa le ripeteva agitandosi: «Lunga, lunga, lunga! Stai lunga!». E le teneva un dito piantato là dove doveva spingere, dove la sua carne si stava lacerando.
Era uscita. Schizzata via a velocità della luce, come una saponetta bagnata, una liberazione assoluta.
[Silvia Avallone, Da dove la vita è perfetta, Rizzoli, 2017]