“Il teatro dei sogni” di Andrea De Carlo (La Nave di Teseo) è uno di quei libri che possono dirsi provvidenziali. Arrivano in soccorso quando non ne puoi più di quel che ti circonda, di ciò a cui si è ridotta la politica, dell’imbecillità umana, della televisione che la riflette in tutto il suo fulgore. Libro propizio al momento, ora che nessuno se la sente di dire (roba dell’altro secolo): vi affogheremo tutti in una grande risata. De Carlo, con l’abilità narrativa che gli è propria, torna a far smuovere, vivaddio, una rinnovata risata sul presente; e adoperando la chiave della satira, svolge, a suo modo, un’indagine sociologica e psicologica di forte attualità. La ‘fantasiosa’ vicenda inizia la mattina di un primo giorno dell’anno, quando Veronica Del Muciaro, inviata d’assalto di un seguitissimo programma televisivo (fascia pomeridiana, genere nazionalpopolare) rischia di morire soffocata da una brioche in un caffè di Suverso, cittadina del prospero nord Italia. A salvarla con la manovra di Heimlich è il marchese Guiscardo Guidarini, un archeologo scontroso e anticonformista che nei convenevoli del dopo-salvataggio si lascia sfuggire di aver riportato alla luce, nella sua proprietà, un antico teatro di impianto ellenistico. La Del Muciaro prende al balzo la notizia. L’importante ritrovamento diviene subito oggetto di una diretta Tv, ed è a questo punto che si scatena una furiosa competizione tra Comuni, forze politiche (che fino al giorno prima se ne fregavano altamente di siti archeologici e di cultura), giornalisti saccenti, studiosi più o meno autorevoli. Lo scontro politico vede sulle barricate il sindaco (ex venditore di macchine agricole) appartenente a Rivolgimento (Movimento in calo di consensi, formato da “soggetti che prima di essere eletti non avevano neanche un lavoro” e che improvvisamente “si sono ritrovati come i topi nel formaggio”) e la vice sindaca del capoluogo eletta con i voti dell’Unione nazionale, partito capitanato da un segretario-coach, aggressivo, simpatizzante degli autocrati russi e niente affatto delle istituzioni europee, gran cavalcatore delle paure della gente. Mi raccomando, leggete l’avvertenza a inizio libro: qualunque coincidenza con nomi, persone, programmi televisivi, organizzazioni politiche o luoghi realmente esistenti è puramente casuale. Però – credetemi – per quanto frutto di fantasia, le beffarde pagine di De Carlo aiutano molto. A volte capitasse di ritrovarsi in una situazione simile.
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Se Veronica Del Muciaro dovesse dire qual è la sua paura più grande, direbbe senz’altro quella di perdere il momento. Fino a più o meno venticinque anni è riuscita a perderne milioni, di momenti: saltati fuori dal nulla senza il minimo preavviso e schizzati via senza che lei neanche riuscisse a capire cosa fossero, figuriamoci agguantarli in tempo.
Però intorno ai venticinque anni è arrivata finalmente la svolta. Non si ricorda un episodio particolare, l’inizio di un percorso di trasformazione: le sembra di avere deciso da un giorno all’altro che era stufa di restare lì interdetta a rimpiangere di non aver trovato in tempo utile la risposta giusta a uno sguardo, una battuta, un’occasione che le si presentavano. Fino allora era stata impastoiata da mille insicurezze, dalle aspettative dei suoi, dalla paura di essere giudicata; a scuola balbettava, per dirne una. I telespettatori che seguono i suoi collegamenti come inviata di Tutto qui! non se l’immaginerebbero mai, a sentirla parlare in stile mitragliatrice con le consonanti perfettamente scandite, però a lungo la balbuzie è stata per lei una fonte di umiliazione indicibile. Le bastava avere davanti un pubblico minimo, tre o quattro compagni di classe, non occorreva la classe intera, e le parole le si inceppavano, venivano fuori a strappi. E non erano solo i suoi coetanei a prenderla in giro, ma anche le maestre, più tardi anche i professori. “D-d-del Mu-mu-mu-cia-ro,” le dicevano. “Mu-mu-mu!” Sai che divertimento, sai che risate. Se succedesse oggi, i genitori si rivolgerebbero agli avvocati e alla stampa, la storia finirebbe sui giornali e in televisione. Roberta Riscatto per esempio sarebbe prontissima a saltarci sopra, spedirebbe lei a investigare sul posto, inviterebbe in studio psicologi, sociologi, logopedisti. Direttori e presidi sarebbero costretti a biasimare gli allievi e a dissociarsi dagli insegnanti, a chiedere pubblicamente scusa. Ma allora, figurarsi; e lei comunque non andava certo a raccontare niente a casa, si vergognava come se fosse colpa sua. Per fortuna la soluzione l’ha scoperta da sola, senza bisogno dell’aiuto di nessuno: le bastava buttarsi avanti, invece di farsi paralizzare. È una tecnica semplice: di’ la prima cosa che ti viene, non farti problemi, non scegliere le parole. Tanto quelle arrivano, con un minimo di impulso. Scollati dalle esitazioni, non preoccuparti delle reazioni, lascia perdere le conseguenze. Fa’ una domanda magari scomoda, un’osservazione magari indelicata, un commento magari sfacciato, fa’ una smorfia, uno scimmiottamento, datti una scossa ai capelli, non importa, buttati avanti. E non insistere per più di qualche secondo sulla stessa angolazione: cambiala, sii impaziente, sii invadente. Cammina, muoviti. I risultati si sono visti, anche se forse non proprio in tutti i campi della sua vita; però di momenti non se ne perde più, poco ma sicuro.
Basta guardarla adesso, per esempio, in questa mattina fredda ma nemmeno troppo tenuto conto che è il primo di gennaio, mentre entra nel caffè più storico del centro di Suverso, ancora rintronata dalle aspettative deluse del Capodanno a Milano e dalla guidata notturna in Mini con l’acceleratore a tavoletta. Basta guardare il suo riflesso nello specchio dietro il bancone mentre scansiona le paste e le brioche nella vetrinetta: i capelli hanno il tono giusto di biondo, più scuro alle radici e sfumato chiaro in lunghezza, le borse sotto gli occhi sono al minimo date le circostanze, la pashmina nera è morbida e vaporosa, il piumino argentato bello stretto in vita dalla cintura, i pantaloni neri stretch le fasciano bene le gambe, gli stivaletti con i tacchi alti le danno slancio se non proprio altezza. Non sarà più una ventenne ma non è niente male, e l’impressione è confermata dalle occhiate maschili d’apprezzamento mentre si allunga a indicare alla signorina in grembiule e cuffietta una brioche alla crema spolverata di zucchero a velo. Fa una mezza giravolta per ordinare al barista un cappuccino, e raccoglie anche alcune occhiate di donne che l’hanno riconosciuta, con proporzioni diverse di ammirazione, curiosità morbosa, fastidio, gelosia.
Tira fuori il telefonino, lo mette in funzione selfie, con il filtro effetto soft focus che usa sempre; inclina la testa, scopre il sorriso che con queste luci diventa quasi abbagliante, avvia la diretta sulla sua pagina social. Passa il telefonino nella sinistra, allunga la destra a prendere la brioche alla crema, ne intinge la punta nel cappuccino, fa una piccola smorfia buffa. “Così eccoci al primo giorno del nuovo anno!” Prende un bel morso, senza quasi masticare per concentrarsi sul sorriso e non fare la ruminante. C’è un altro filtro simpatico che le mette automaticamente sulla testa una coroncina dorata con la scritta 2020. Saranno giochini infantili finché vuoi, ma ormai li usano tutte le sue colleghe e metà dei suoi colleghi maschi, li usa anche sua madre. Cosa c’è di male a migliorarsi un tantino, a rendere un po’ più divertente la comunicazione? Niente, proprio niente. Però adesso il boccone di brioche non masticato le si è bloccato a metà trachea e non scende, le rende sempre più difficile continuare a sorridere. Prova a mandarlo giù ma non ci riesce, prova a farlo risalire ma non ci riesce, prova a respirare ma non ci riesce: da un momento all’altro si rende conto che sta soffocando davanti a tutti, come una scema.
Fa qualche passo spaventato via dal bancone, cerca di calmarsi, cerca di deglutire il malloppo o rigurgitarlo nel tovagliolino di carta: niente, l’ostruzione le chiude il passaggio dell’aria, la fa annaspare, la manda in tilt. La testa le si riempie di facce di persone finite malissimo di cui ha dovuto raccontare dai luoghi dell’incidente o della disgrazia o del delitto, e intanto barcolla in preda al panico nel caffè più storico del centro di Suverso.
L’aspetto peggiore della situazione, a parte il senso di soffocamento e il vedersi già cadavere sul pavimento, già commemorata da Roberta Riscatto in tono finto commosso mentre guarda dritto verso la telecamera con gli occhi lucidi (le basta fissare abbastanza a lungo una luce di studio, lo fa spesso), è che gli altri clienti restano lì immobili, con le stesse identiche sfumature di ammirazione, curiosità morbosa, fastidio e gelosia che avevano prima. Forse non riescono a leggere l’affanno nei suoi movimenti e il terrore nei suoi occhi, o forse pensano che una corrispondente televisiva specializzata in liti e delitti sia più o meno immortale.
Lascia cadere sul pavimento la brioche e anche il telefonino, si strappa via la pashmina, fa altri passi traballanti con le mani sulla gola, e ancora nessuno si sogna di muoversi per aiutarla. Per esempio la vecchia signora con la pelliccia di visone e i capelli azzurrini, o la cinquantenne vestita da collegiale col cerchietto di strass in testa, o il tipo lungo e magro con gli occhiali da spia anni sessanta, o il grassone che quasi fa scoppiare il suo cappotto di cammello, o le due amiche fighette con gli occhi da coniglie gemelle, o il ragazzino con i capelli dritti sulla testa e la mamma in giacca di pelle nera borchiata e griffata. Tutti fermi, con quel cavolo di compostezza ipocrita e sospettosa da buona borghesia suversese, a fissarla come se stesse facendo una sceneggiata per intrattenerli. Anche la ragazza e il barista dietro il bancone sembrano più incuriositi che allarmati, mentre lei annaspa con il cuore che le batte all’impazzata e il sangue che le diventa freddo e gli occhi che le si riempiono di lacrime all’avvicinarsi di una fine incredibilmente stupida e umiliante davanti a una dozzina di sconosciuti che pensano di conoscerla perché hanno visto le sue corrispondenze per Tutto qui!
D’improvviso sente un impatto violento alle spalle, una stretta intorno alla vita e una pressione alla base dello sterno, strappi all’insù così forti da farle staccare i piedi da terra. Vorrebbe gridare di smetterla per non peggiorare la stupidità umiliante della sua fine ma non ci riesce, e chiunque sia che la stringe e preme e solleva continua a farlo con la stessa energia, finché lei sente il pezzo di brioche fermo nella trachea che miracolosamente si sblocca e le viene su per la gola, le vola fuori dalla bocca. È incredibile, ma da un istante all’altro può di nuovo respirare, riempirsi i polmoni d’aria! Tossisce, deglutisce, si muove con una sensazione esilarante di sollievo che le si diffonde per tutto il corpo, le sale alla testa come un’ubriacatura. Si gira, e finalmente può vedere in faccia il suo salvatore.
È un tipo dallo sguardo intenso, capelli sale e pepe a ciocche disordinate, cappotto nero dallo splendido taglio morbido, sciarpa di seta viola e arancione, stivali da cavallo un po’ sporchi di fango. Uno strano misto di eleganza e durezza, calma e tensione: abbastanza sconcertante, in questo momento già parecchio instabile.
[da Il teatro dei sogni di Andrea De Carlo, La Nave di Teseo, 2020]