Agli occhi di un adolescente di oggi, perfino uno dei romanzi più riusciti degli anni Ottanta, "Due di due" di Andrea De Carlo, rischia di apparire allo stesso tempo “familiare” ed “estraneo”. Familiare, quando viene descritta l’amicizia – sentimento eterno – tra Mario e Guido; estraneo, allorché, nella prima parte, viene rappresentato il mondo studentesco milanese negli anni a cavallo del Sessantotto, un mondo contraddistinto dalla contestazione delle istituzioni e dei valori tradizionali e dalla centralità accordata alla politica militante. La nascita dei primi collettivi, le manifestazioni di piazza, i cortei non autorizzati, le occupazioni delle università, gli scontri con le forze dell’ordine, vengono percepiti dal lettore appartenere a un’epoca remota e sembra quasi impossibile che di lì a poco tanti ragazzi abbiano potuto scegliere di impegnarsi in prima persona in uno dei numerosi gruppi scaturiti dal movimento sessantottino, come Lotta Continua e Autonomia operaia.
In realtà, però, già con la fine degli anni Settanta, e ancor più con gli Ottanta, che vedono la crisi di quelle che il filosofo francese Jean-Francois Lyotard ha chiamato “le grandi narrazioni”, come il marxismo e l’idealismo, la nascita della televisione commerciale, la diffusione di dottrine neoliberiste (privatizzazioni, deregulation, limitazione dello Stato sociale), si assiste a un ripiegamento nella sfera del privato sempre più accentuato. La politica scade da principale ragione di vita a mera possibilità, una tra le tante, di impiegare il proprio tempo libero, mentre cresce la sfiducia verso i partiti tradizionali e gli organismi partecipativi. Una impietosa conferma in tal senso ci è fornita dalle statistiche: se a metà degli anni Settanta, in Italia, su cento giovani erano in ventidue a fare politica, già nel 1984 il loro numero si era ridoto a tre su cento. E così quelle stesse piazze cittadine, che un tempo avevano assistito a comizi e manifestazioni, si trovavano ora ad ospitare compagnie di ragazzi che trascorrevano i loro pomeriggi del sabato sorseggiando Coca Cola e ascoltando la musica che usciva dalle casse stereo montate nel bauletto di una vespa Px o ET3.
Tuttavia, l’agonia delle grandi passioni, specie delle passioni collettive, è un’agonia lenta, non subitanea, non di breve durata. Anche la politica, al pari del “fulmineo lampo dell’amore” di "Endings", straordinaria poesia di Derek Walcott, non ha un “epilogo tonante”, bensì sbiadisce come fa il sole dalla carne, esala come accade alla schiuma del mare nella sabbia. Ecco perché io serbo ancora memoria di accese discussioni nel mio liceo, nella Firenze dei primi anni Ottanta, tra i candidati alla carica di rappresentante d’Istituto per la componente degli studenti. Ciascuno di loro era espressione, con la sua lista, di qualche organizzazione giovanile di partito, ciascuno di loro teneva orgogliosamente in bella mostra, nel corso dell’assemblea, un quotidiano (L’Unità, Avvenire, Avanti!, Secolo d’italia) che già suggeriva una precisa collocazione ideale dentro e fuori il cosiddetto arco costituzionale. Poi, però, anche questa forma di impegno “in politicis”, indubbiamente non più totalizzante come in passato, è venuta meno.
Per convincersene è sufficiente scorrere i motti riportati in calce alle liste che competono per il rinnovo della rappresentanza studentesca nel Consiglio d’Istituto di una qualunque scuola italiana: in quei motti i riferimenti al mondo della politica – alle forze politiche – sono quasi sempre assenti. Sarebbe ingeneroso, però, dare ai giovani la colpa di questa profonda trasformazione, che ha finito col rendere loro parzialmente “estraneo” anche un romanzo come "Due di due" di Andrea De Carlo (ma la stessa cosa si potrebbe dire per "Altri libertini" di Pier Vittorio Tondelli). La responsabilità, piuttosto, è pressoché interamente di noi adulti, che nel periodo successivo alla fine della cosiddetta Prima Repubblica abbiamo contributo, con il nostro voto sbagliato e con la nostra inerzia cortese, a diffondere e ad avvallare tra le nuove generazioni l’idea che la politica non è partecipazione né viene fatta dal basso, bensì è appannaggio del segretario di partito (o del leader di coalizione) e della sua ristretta corte di servi e di ruffiani.