Sono un tenace lettore di poesia, fin da giovanissimo. Mi è sempre piaciuto frequentarla perché terra di confine tra il detto e l’indicibile. Ultimo stadio della parola, del suo farsi essenza, scarnificazione, estrema resa agli spazi bianchi (al silenzio). In ragione di questo praticar versi mi si chiede talvolta opinione su prime prove poetiche o summe di strofe di vite intere. Insomma, aspiranti poeti o sedicenti tali. Leggo e dico loro la mia, per quel che possa valere. Ricordo sempre quando, a parti inverse (ero io il poeta, o sedicente tale) mi fu consigliato di leggere i suggerimenti di Jiří Kolář, eclettico artista e poeta ceco (1914-2002), che con le sue “Poesie in silenzio” si spinse fino a rompere con la poesia verbale (decostruzione del poema) sulla scia di Mallarmé e Apollinaire. Ecco i consigli di Kolář in una traduzione d’autore, quella di Giovanni Giudici, il quale sosteneva da par suo che il poeta è insieme “alunno e fabbro”.
Chi si mette a scrivere una poesia il primo del mese
non deve perder la testa
altrimenti il mistero non riconosce la sua passione degna di riscatto della mortalità
e dovrà contentarsi solo del corpo della poesia
Chi si mette a scrivere il due del mese
deve far attenzione al linguaggio
perché chi imprime ai versi un tono altro dal linguaggio reale della gente
anche se parli in diamanti
scriverà sui diamanti ma non farà una poesia
Chi si mette a scrivere il tre
sfida la morte
e qui unica arma è una lingua d’artificio
Il quattro
troverà qualcosa
che farà la rovina di quanto abbia mai scritto
ma soltanto dalle macerie del passato sorge il nuovo
soltanto ciò
che dice più del passato è degno di vita
Il cinque
punti ciò che può puntare
perché in prossimità della rovina tutto si unisce senza reciproco danno
di questa unione ha bisogno massimamente la poesia
è in gioco la vita
Il sei
non deve risparmiare nemmeno il proprio sangue
Il sette
non dimentichi
se qualcosa manca alla poesia
di andarlo a cercare altrove
se ha fame
sa dove il pane si trova
se soffre il freddo
sa dove il sole scalda
L’otto
deve dominare il linguaggio poetico
perché le poesie si fanno comprendere
e una non lascia soffrire l’altra
Il nove
farà bene
se si rivolgerà alla storia del suo esistere
e da essa creerà
Il dieci
gli passi la voglia di celare alcunché al sole della notte o agli occhi del giorno
L’undici
si ricordi
che il più ricco sudario non fa del cadavere un vivo
e che le perle si mettono nel metallo prezioso e non nel fango
Il dodici
deve sapere che la poesia non è uno specchio
ma scopre ognuno tal quale è realmente
e non per quello che vuol dare a parere
Il tredici
dovrebbe sapere
quanto il dare e l’avere è stato nella sua vita
perché il saperlo è la più alta scuola per scrivere poesie
in quanto la poesia dev’essere un dono
che non dobbiamo rendere ad alcuno
Il quattordici
deve parlare di tutto come parla di sé la realtà
senza inibizioni
senza omettere il vuoto fra l’essere e il riflettere
e con la forza primordiale di una presenza
Il quindici
non farà a meno dell’impurità se non vede
che nel palazzo di cristallo non sempre abita un angelo
ma un criminale
Il sedici
dovrebbe sapere che la poesia non è una gemma né un’orchidea
la gemma può trovarla anche uno sciocco
e l’orchidea anche il boia può coltivarla
Il diciassette
sappia che la strada verso il sole è strada alla poesia
laddove pensi che si adagi nella tomba
desta un nuovo giorno
laddove pensi che si alzi dalla culla
tutto lascia in preda alle tenebri
Il diciotto
si renda conto che la poesia è come la terra
che ora ha una faccia alla luce
l’altra sotto il velo del buio
e ora viceversa
Il diciannove
dovrebbe sapere che della poesia non decide
libertà o schiavitù ma la gente
e che al contrario decide la poesia
che cos’è libertà e che cos’è schiavitù
e non la gente
Il venti
deve capire
che la guerra può essere alla poesia fatale come una pace senza frutto
perché senza sforzo conduce al peggio tutto
sempre e dovunque
Il ventuno
non deve dimenticare che il poetare è un modo
di essere generatore di poesie
ma creare significa farle
Il ventidue
sappia che i sette vizi capitali
sono anche sette vizi capitali contro la poesia
Il ventitre
dovrebbe sapere che i mazzi di fiori si addicono alla bara
e la spada al muro
Il ventiquattro
non dimentichi che simbolo di saggezza è la civetta
e non il pavone
Il venticinque
si ricordi che ottusità e sfrontatezza sono sorelle
e gemelle siamesi venalità e codardia
Il ventisei
non deve non sapere
che le poesie sono storia ideale
di umana dignità non di abiezione
Il ventisette
dovrebbe capire che creare qualcosa
è dare un qualche esempio
ed essere esempio d’errore e d’ignoranza
forse non è senso d’arte ma d’incapacità e di cinismo
Il ventotto
deve sapere che quegli
che scrive ciò che la saliva gli porta alla lingua
crea della saliva
ed è dunque lontano dall’essere poeta
come chi affronta Ercole camminando carponi
Il ventinove
deve rendersi conto
che la bestia da macello non può privarsi dell’inimicizia della morte
ma solo può privarsene chi è prossimo agli dei
Il trenta
deve sapere che le parole sono rose e anche capestri
ma che è segno di stupidità
regalare senza sgarbo un mazzo di capestri o impiccarsi a una rosa
perché la poesia non è
nonsenso ma miracolo di vita
Il trentuno
deve capire che il destino non è un salto di morte sotto un treno
ma un salto sotto un treno
scampandone senza il minimo danno
[Jiří Kolář, “Mensile di poesia”, in Giovanni Giudici, Addio, proibito piangere, Einaudi, 1982]