Non ha voluto scrivere l’ennesima autobiografia del protagonista che rammenta con nostalgia le battaglie combattute. E ha optato per un titolo che suona ironica rivendicazione. Nel costruire il libro che ripercorre le scelte di una vita fino all’annuncio cruciale, alla Bolognina, del 12 novembre 1989 e oltre, Achille Occhetto (“La gioiosa macchina da guerra”, Editori Internazionali Riuniti) ha diviso il suo discorso in due parti: nella prima analizza le motivazioni che lo portarono ad accelerare un processo non sorto dal nulla. Quindi, nella seconda parte, si incammina a ritroso fino all’infanzia torinese e non per spiegare in termini personalistici le radici della clamorosa svolta, ma per inserire le vicende attraversate con entusiasmo o con sofferenza entro un quadro più generale. Lo spazio del comunismo italiano ebbe suoi caratteri: vi confluivano sensibilità e ispirazioni diverse ed era fatto di una geografia culturale non riducibile a univoco modello.
Il bisogno di credere – Uno dei passi più intriganti di questo appassionato e sincero resoconto sollecita qualche chiosa: “Ho vissuto la mia vita – scrive Occhetto – con il bisogno di credere. Ho sempre creduto, ho creduto in cose diverse e ogni volta ho sottoposto a severa critica ciò in cui credevo. Quando non ho più creduto in Dio ho incominciato a credere in un progetto. Non sono mai stato acritico e fanatico. Però, dopo avere sottoposto a severa critica razionale un determinato modo di vedere il progetto stesso, ho sempre sentito il bisogno di ricostruire, comunque, una finalità, un nuovo progetto, un obiettivo. In un certo senso, una fede. Da questo punto di vista la mia è stata la vita di un uomo intensamente religioso”. La confessione sorprende e non tanto per l’insistenza sul “progetto” di una società in grado di cancellare le disparità e le ferite del capitalismo trionfante, quanto per la dimensione religiosa apertamente enfatizzata. La si direbbe in contrasto con le coordinate fondamentali della formazione così incise nell’identità propria di Torino: il liberalismo ribelle di Piero Gobetti e il marxismo, interpretato da Gramsci in termini volontaristici.
Comunismo e libertà – È il problematico ossimoro comunismo-libertà che suscita inquietudini crescenti e sottende irrisolto una storia di lotte tenaci e coraggiose. Eppure l’annuncio di quella domenica del novembre ’89, dato all’indomani della caduta del Muro, quando si percepiva irreversibile un mutamento drastico della scena mondiale, era come il punto d’approdo di un travaglio che veniva da lontano. Finalmente la sostanza più autentica e peculiare del complicato comunismo italiano avrebbe potuto liberarsi dalle costrizioni ideologiche, dalle ferree limitazioni delle guerra fredda, dalle ambiguità e dalle doppiezze ed essere il nucleo animatore di una forza ampia e plurale, di un “partito grande” capace di contenere e associare le tradizioni di un riformismo fino allora rimasto ai margini. Si trattava di porre fine a un’esperienza e al tempo stesso convertirla in una prospettiva che significasse un “nuovo inizio”. A rileggere i testi e le parole di quei giorni angoscianti risalta incontrovertibile il senso di un “progetto” o almeno la direzione di marcia che la revisione avrebbe dovuto imboccare. Invece che accettare la sfida e contribuire criticamente a definire questa esaltante impresa, apriti cielo! Quanti distinguo! Quanti mal di pancia! Quanta ritrosia! Quante paure! Il defatigante dibattito si protrasse per anni fino al gelido gennaio 1991, allorché a Rimini il segretario naturale del nuovo partito fu bocciato da una miope manovra di Palazzo.
La scissione – In molti rimproveravano a Occhetto di non aver collocato la sua audace proposta all’interno del campo socialdemocratico, senza ambagi o reticenze. Egli oggi ha buon gioco nel rispondere che, per quello che stava accadendo in Italia, la cosa era semplicemente impossibile e ha ragioni da vendere quando osserva, lapidariamente, che l’occasione mancata per creare una forza socialista alternativa al dominio conservatore fu il 1956: era difficile la “fusione con un Partito socialista che aveva ragione sulla sostanza fondamentale del problema”, ma era un salto da compiere: “Probabilmente – aggiunge – sarebbe stato necessario compierlo anche a costo di scontare una scissione stalinista, che ci sarebbe indubbiamente stata e avrebbe avuto dimensioni imponenti”. La storia non si fa con i “se”, ma a volte conviene lasciar correre l’immaginazione. Il novembre 1989 doveva essere piuttosto il momento d’avvio d’una fase costituente che unisse tutti coloro che, pur animati da programmi di ispirazione riformistica, erano rimasti impantanati in un paralizzante consociativismo, in separazioni non più attuali. Non aver “creduto” con coerenza alla tempestività e all’urgenza di quell’ambizioso disegno – o magari averlo subito come sgradita necessità – ha prodotto parziali successi e scossoni salutari, ma non il bipolarismo necessario, non le condizioni di un’alternativa stabile e duratura alla crisi della Repubblica malata. I problemi di oggi si spiegano in gran parte con la fatale irresolutezza delle laceranti divisioni di una sinistra che ha preferito sempre guardare più alle eredità del passato che sperimentare insieme le vie del futuro.