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La custode dei peccati. Megan Campisi racconta una storia di riscatto femminile

“La custode dei peccati” (Edizioni Nord, traduzione di Alessandro Storti) è l’opera prima di un’autrice, Megan Campisi, che ha frequentato la Yale University e l'École Internationale de Théâtre Jacques Lecoq. Drammaturga, scrittrice e insegnante ma, tra i vari lavori, è stata anche guardia forestale e la sous-chef a Parigi. Un esordio notevole, un romanzo originale a metà fra lo storico e il distopico. Ma chi erano i mangiapeccati (“The sin Eater”, come ci dice il titolo originale)? Erano persone che, in varie zone d’Inghilterra e dintorni, fino all’800 svolgevano questo ingrato compito. Non abbiamo idea di chi – o quante – fossero, sappiamo solo che erano socialmente emarginate e che compivano un rituale popolare d’ispirazione pagana anche se definito cristiano, che consisteva nell’assolvere il defunto dai suoi peccati inghiottendo un boccone di pane in presenza del cadavere. Campisi dichiara che “la storia è basata su questo piccolo fondo di verità, ma in ogni altra sua parte è un prodotto di fantasia”, come ovviamente la grande qualità dei cibi in base al peccato.
 
Alcuni personaggi richiamano fortemente figure storiche, come Elisabetta I, Enrico VIII e tutto l’entourage di corte dei Tudor. Appaiono gli stemmi delle regine. Un cigno coronato per la prima moglie, la madre della regina Maris. Un falco coronato per la seconda, madre della regina Bethany, giustiziata per tradimento, fornicazione, incesto e stregoneria. Una fenice per la terza, morta di parto. Si riconoscono bene le sei mogli del famigerato Enrico VIII e le sue figlie. Detto questo non è un romanzo storico e risente di alcuni difetti dovuti al mescolare troppi generi. Una certa immaturità è forse il limite di questo romanzo che comunque rappresenta uno specchio interessante sulla condizione femminile di allora, come anche di oggi. Relegata al ruolo di mangiapeccati, il modo in cui May viene trattata è simile al destino di tante donne che ancora oggi, pur non indossando un collare al collo e una S incisa sulla lingua, subiscono pesanti condanne e umiliazioni. “Tante volte, nel corso degli anni, mi sono sentita svuotata. Nel senso di sola. Però adesso in me c’è qualcosa di ancora più brutto. Un senso di morte che mi striscia fino al cuore. Alzo lo sguardo verso quel cielo alto e bianco che non bada minimamente a me… Sono una mangiapeccati, dico ai tizzoni rossi. Cosa significa? Significa che non vedrai mai più una persona che ti sorride con gli occhi, rispondono loro. Significa che non sentirai mai più un petto premuto contro il tuo in un abbraccio”.
 
La protagonista May, una ragazza di appena 14 anni, ha rubato solo un pezzo di pane, e avrebbe dovuto essere impiccata come tutti gli altri ladri. Invece il giudice preferisce darle una condanna peggiore della morte: diventare una Mangiapeccati. Dopo la sentenza, May è obbligata a indossare un collare per essere subito riconoscibile e le viene tatuata la lettera S sulla lingua. Non potrà mai più rivolgere la parola a nessuno e diventa apprendista di un’anziana mangiapeccati che, senza parlare, le insegna le regole del mestiere: raccogliere le ultime confessioni dei morenti, preparare i cibi corrispondenti ai peccati commessi e infine mangiare tutto, assumendo su di sé le colpe del defunto, la cui anima sarà così libera di volare in paradiso. Le Mangiapeccati sono esclusivamente donne, disprezzate da tutti, eppure indispensabili. Soprattutto a corte. E qui inizia una serie di delitti che May dovrà decodificare come in un buon romanzo giallo. Ma May non sa leggere, conosce solo alcune lettere e cercherà attraverso i segni cosa nascondono e oscurano le dame. Delitti, infanticidi, segreti? “Perché io non posso essere maledetta. Sono già una maledizione fatta persona”.
 
E poi una corte dei miracoli che le ruota attorno. Non sono semplicemente vagabondi: anche loro appartengono alla tribù degli invisibili. Saltinbanchi, lebbrosi, ladri di cavalli, falsari che vendevano licenze di accattonaggio contraffatte. Riecheggiano in sottofondo le note dei romanzi della grande Hilary Mantel, che Campisi ha certamente letto per orientarsi: ricostruzioni fedelissime del tempo, minuzie e documenti fondamentali per capire le vicende.  Basti pensare alla Domus Conversorum, ormai diroccata, dove venivano collocati gli ebrei in attesa di conversione, coloro che “nel Libro del Creatore sono chiamati «popolo eletto»; che non sono come noi; e che, un po’ come le fate, in Angliterra non ce n’è più neanche uno”, pensa May e questo ci dà un’idea non solo dello sguardo dal basso ma anche del linguaggio usato nella narrazione. Una lingua versatile, che ha reso molto bene il traduttore. A proposito di un rosario “Solo in seguito ho capito che c’era il rischio di venire ammazzati, a conservare un oggetto del genere. Per queste cose, già in passato erano scoppiate guerre, e altre ce ne sarebbero state in futuro. I roghi di Maris, gli Epuratori della regina Bethany”. L’inferno è denominato il mondo di Eva: “Eva è la peggior peccatrice in tutto il creato, la ribelle originaria, la prima ad allontanarsi dalla grazia del Creatore”. E, sempre contro le donne carcerate a cui non è concesso nemmeno questo strano rito: “Ascolto tutte le condannate a morte, e mi rendo conto che non hanno commesso misfatti peggiori di certa gente che mi ha recitato i propri peccati dal letto di casa. È solo che loro sono state scoperte, quegli altri no. Quasi nessuna ha parenti che possano portare cibi sulle loro tombe affinché alle loro Recitazioni segua un Pasto”.
 
Soprattutto un romanzo di genere che ricorda il racconto dell’ancella di Margareth Atwood, attento alle problematiche femministe, in cui l’autrice si interroga su cosa dà senso alla vita, il calore, le parole, gli abbracci che a May sono negati e soprattutto la libertà “Forse la libertà sta nel poter decidere da sé, anche se le decisioni sono pessime”.
 

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