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La città, i cavalli, gli animalisti. E il Palio, che non è una corsa

Finalmente s’è corso questo Palio dai tanti assilli: in forse fino all’ultimo per i rovesci temporaleschi della vigilia. Il sole sfacciato del pomeriggio del 16 è sembrato farsi gioco delle nocive previsioni meteo. Nulla nel Palio è prevedibile. Era molto attesa la prima manifestazione di una componente del variegato modo animalista: il Partito animalista europeo (Pae), che di europeo ha appena l’aggettivo. Averne autorizzato lo svolgimento ai margini della città, ma in coincidenza con la festa, può rivelarsi una scelta saggia se se ne trarranno le conseguenze. Il gruppuscolo sbarcato in zona Acqua Calda con scritte minacciose («Contradaiolo crepa») e oscuri slogan profetici («Il nostro inizio… la vostra fine») ha dato voce ad una protesta incentrata su un preciso obiettivo: la proibizione di qualsiasi impiego di animali in occasioni di sagre, palietti, corsette, gare. Facendo, quindi, del Palio il paradigma responsabile di un disinvolto dilagare di appuntamenti il più delle volte destituiti di autenticità. Scelta comprensibile solo per la forsennata ricerca di una qualche risonanza mediatica. Quanti si occupano delle “questione animale” con pertinente rigore potrebbero esibire non pochi meriti nell’aver sollecitato e promosso innovazioni non secondarie. A inquietare nella protesta animalista sono stati i toni intimidatori e l’annuncio dell’intenzione di replicare l’evento in futuro. Il Palio – si sa – ha una tale forza rituale da contagiare e rendere ripetitivo quanto coinvolge o suscita, come Re Mida trasformava in oro ogni oggetto con cui venisse a contatto. Una simile continuità di proteste che si replichino è da contrastare con serena fermezza. Discussioni e confronti con chi voglia discutere il merito di problemi irrisolti e dei miglioramenti da apportare quanti se ne vuole. Ma se s’inalbera un’ottica fondamentalista in nome della quale pretendere d’inserire nel giorno stesso della fase culminante di una delle più emblematiche espressioni della civiltà comunale italiana una sorta di appendice a propagandistico contraltare, allora non ci siamo. Chi ha vissuto fin da bambino questa leggenda sa bene – non più imberbe – che vi sono inquinamenti e enfatizzazioni pericolose, da eliminare o da mitigare. Il mondo di una certa ippica derelitta e quindi alla ricerca di appigli di sopravvivenza ha assunto un ruolo sproporzionato. La forza del palio senese – inteso come finale agone tra Contrade – è stata la sua permanenza e il suo assorbire nei secoli costumanze e modalità in un perenne gioco di attualizzazione. Quando più insidioso diventò l’intreccio con l’ippica che gli ruota attorno la reazione doveva essere netta, basata sulle profonde motivazioni culturali. Il Palio non è una corsa di cavalli. Anche per i cavalli non tutto si garantisce puntando alla “sicurezza” e ai controlli veterinari. E non è neanche vero che a Siena ci sia un sorta di religione del cavallo tipo quella indiana per le mucche. All’Acqua Calda si son fronteggiati due mondi. I senesi accorsi per curiosità hanno opposto il gioioso canto della verbena, l’erba ritenuta sacra che nasce nel Campo, a grevi attacchi. I raggruppamenti sono stati, consapevoli o no, comparse d’una drammatica Allegoria: la lotta tra una tradizione che non si rassegna a morire e un radicalismo che, sbeffeggiando memorie storiche e consolidato senso comunitario, contribuisce al culto di una “tecnica” assoluta, spavaldamente e altezzosamente ignara di linguaggi e differenze.

dal Corriere Fiorentino, 18 agosto 2015

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