Azzardo un accostamento sacrilego. Mentre l’Italia è detta tecnicamente in recessione e il capo del governo controbatte che “sarà un anno bellissimo”, mentre nazioni, popoli e singoli si incarogniscono dietro chiusure e circoscritti mondi, mentre pensieri e sentimenti paiono avviati a un esiziale processo di necrosi, ritengo che il 2019 possa essere sì un anno bellissimo, ma solo in ragione di una notizia: è l’anno che celebra i duecento anni dell’Infinito, e in nome di Giacomo Leopardi si avrà modo di riflettere su ‘infinità’ ed ‘immensità’. Un ricco calendario di iniziative (mostre, spettacoli, conferenze, pubblicazioni) saranno imperniate su quel testo il cui manoscritto, dallo scorso 21 dicembre, è esposto a villa Colloredo Mels. Quindici endecasillabi di un giovane ventenne che, in chiave a suo modo antiromantica, affronta una riflessione sulla condizione umana. Lo fa abbandonandosi completamente all’immaginazione (che è cosa diversa dalla irrazionalità) e alla poesia. Costruisce una serrata sequenza di pensieri, un discorso che sembra non prendere mai respiro (basti notare la struttura dei versi quasi interamente uniti da enjambements). Sono gli anni (1818-1819) in cui Leopardi si fa consapevole della propria infelicità, ma anche della decadenza della società civile, delle istituzioni politiche e culturali. Rileva un degrado del pensiero e dei costumi, una povertà di immaginazione e di sentimenti, una chiusura mentale che alimenta egoismi, inettitudine, che minaccia la libertà. Già muove da qui l’ultimo invito del poeta, contenuto poi nella Ginestra, affinché gli uomini tornino a stringersi in “social catena” contro “l’empia natura”. Da precoce filosofo quale fu, nell’Infinito Leopardi pone il dramma dei destini umani con pensosa serenità, tant’è che il cuore né si turba né si smarrisce, anzi si acquieta; il poeta riflette sul tempo, sulle dimenticate età della storia, sul presente, sull’infinitezza che tutto attraversa e in cui annega pure il suo pensiero, ma trattasi di un dolce naufragare. Il bicentenario di un siffatto messaggio, serva almeno a ricordarci che in quel naufragio fluttua la salvezza dell’uomo.
L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e rimirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
[dai Canti di Giacomo Leopardi]