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L’incontro tra arte e millennials contro l’impoverimento emotivo

Gli adolescenti non amano i musei. Più che viverli, paiono subirli. Al seguito dei genitori o, più spesso, degli insegnanti, gettano sguardi annoiati e infastiditi a tele e sculture. Parlano tra di loro, anche a voce alta, ridono, fanno a gara, sala dopo sala, a conquistare un posto a sedere, per poter riposare le gambe e dare un’occhiata al cellulare, a qualcuno capita perfino di appisolarsi. Si chiedono come facciano i custodi a trascorrere ogni giorno tante ore all’interno dello stesso ambiente. Forse Franz Kafka, quando scrisse il racconto intitolato “La condanna” (davvero gli bastò una sola notte?), doveva avere in mente un tipo di lavoro di questo genere. Si rincuorano unicamente al pensiero che, una volta fuori, potranno accendersi una sigaretta, entrare da McDonald’s a mangiare un hamburger, dare due calci a un pallone.  Non ci sono dubbi, peggio di una mattinata trascorsa al museo c’è soltanto la visita della domenica ai parenti. Perfino il compito di latino e l’interrogazione di fisica si fanno preferire.

Eppure l’esperienza insegna che è proprio nel corso dell’adolescenza che si gettano le basi per diventare, da grandi, interessati e appassionati visitatori di mostre, pinacoteche, gallerie d’arte. Ed è per questo che recentemente (nel 2013) hanno visto la luce a Venezia e a Barcellona due progetti simili, rivolti il primo a una fascia di età compresa tra gli 11 e i 19 anni, e il secondo a una fascia di età compresa tra i 14 e i 18 anni. Ispirati entrambi al metodo della peer education (alla lettera “educazione tra pari”), “Palazzo Grassi Teens” e “Habitacio1418” coniugano l’uso di nuove tecnologie con l’incontro fisico – fuori dall’orario scolastico –  con le opere d’arte, affidando agli stessi studenti il compito di trasmettere le conoscenze acquisite ai propri coetanei: l’identità anagrafica dovrebbe essere garanzia di identità di interessi. Solamente gli anni a venire diranno se sia questa la strada giusta da percorrere. Una cosa, però, appare certa fin da ora: è proprio sul terreno del rapporto fra i millennials e l’arte figurativa (“il pensiero in figura”, secondo la definizione offerta da Flavio Caroli), che si gioca una delle sfide decisive: crescere una generazione più empatica, più solidale, meno conformista, meno povera emotivamente, più consapevole di ciò che realmente desidera.

La cultura dei nostri giovani, infatti, è una cultura eminentemente visiva, una cultura dell’immagine. Leggono sempre meno e sempre meno sanno leggere. La concentrazione e il silenzio che un buon libro richiede mal si conciliano con il ritmo frenetico e con il “rumore di fondo” – l’espressione è di Zygmunt Bauman – che contraddistinguono (e accompagnano) le loro esistenze. Salvo rare eccezioni, i soli testi che gli adolescenti sfogliano, perché costretti, sono i manuali in uso nella loro classe. Certo, c’è stato un tempo, gli studenti ne sono consapevoli, in cui il sapere si incarnava in una persona (il sapiente, l’aedo); poi si è oggettivato in un rotolo di papiro, in un foglio di pergamena, in un’edizione a stampa a caratteri mobili; quindi si è reso accessibile a tutti in Rete e con la Rete: lì ora si trova, lì ora è depositato. E lì i nostri ragazzi vanno a cercarlo.

A mutare, però, non è stato solamente il supporto del sapere, ma, e di più, la natura della relazione lettore-testo, la quale oramai appare improntata alla rapidità e all’utilizzo immediato di quanto appreso (in vista di una ricerca, di una verifica, di una tesina, di un esame), e non alla lentezza, al diletto, allo scavo interiore, alla riflessione, alla formazione della propria identità. Al pari del turismo, anche la lettura si è ridotta al “mordi e fuggi”. È per questo che – ne sono convinto –  un affresco, una tela a olio, una tempera su tavola, possono servire a catturare l’attenzione e l’interesse degli adolescenti più di quanto siano in grado di fare ormai un romanzo o un’antologia poetica. Perché La maja desnuda di Goja, Il bacio di Hayez, il Campo di grano con corvi di Van Gogh, L’urlo di Munch, Gli amanti di Magritte, Guernica di Picasso, lo Studio di George Dyer di Bacon, si offrono al loro sguardo come qualcosa di presente, di concreto, che cattura e restituisce un istante (quello riprodotto nel quadro), mentre la lettura – e la scrittura – assolvono il compito di evocare, attraverso un sistema di segni condiviso, ciò che è assente e di narrare ciò che possiede una durata e conosce una trasformazione. Questo non significa, ovviamente, che si rinunci a leggere. Ma neppure si può ignorare il fatto che per i ragazzi del XXI secolo il “visto” riveste un’importanza e possiede un’incidenza superiore al “pensato”, essendo loro più familiare, più consueto, più facile da afferrare. Ad esempio, quando lo studente, al Van Gogh Museum di Amsterdam, si trova faccia a faccia con il Campo di grano con corvi, a venirgli incontro con straordinaria immediatezza sono la tristezza estrema e la solitudine che hanno ripreso possesso dello spirito dell’artista dopo un periodo di relativa calma. Due sentimenti, questi, che, se affidati alla pagina scritta – pensiamo ad una delle tante bellissime lettere del poeta praghese Rainer Maria Rilke a Magda von Hattinberg – esigerebbero, per essere colti, sentiti, gustati fino in fondo, una lettura pausata, attenta, ripetuta, di cui pochissimi tra i più giovani sono ancora capaci.

Se espressioni come “essere umano”, “esperienza umana”, “natura umana” continueranno a risuonare cariche di significato e di valore, ciò dipenderà in larga misura dalla capacità degli adulti di abituare i più giovani, mentre saltano da un’immagine all’altra – in televisione, sul monitor del pc o dello smartphone, in Rete – , a soffermarsi, almeno ogni tanto, sulla rappresentazione di un volto o di un corpo, nel quale gli infiniti “moti dell’animo”, come avrebbe detto Leonardo, si sono resi visibili, si sono fatti disegno e colore.  Tratti e cromatismo che ci ricordano la nostra grandezza e la nostra miseria e che, soprattutto, ci mostrano che identica è la sostanza di cui siamo fatti, fragile come un sogno o una parola d’amore che mai trovammo il coraggio di pronunciare.

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