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“L’ebbrezza del ritrovato mare aperto”. I giovani e il viaggiare oggigiorno

I giovani oggigiorno viaggiano tanto, tantissimo, molto più di un tempo. Coi genitori, con gli amici, da soli, soprattutto da soli. E non parlo semplicemente delle “gite fuori porta” o delle visite alle città d’arte. Parlo anche dei viaggi in paesi stranieri, compiuti in treno o, più spesso, in aeroplano. Oramai, sia alla scuola media inferiore che a quella superiore, numerose sono le occasioni offerte per compiere parte del proprio percorso di studi all’estero. Intercultura, ad esempio, mette a disposizione ogni anno circa duemila posti e si rivolge a ragazzi di età compresa tra i quindici e i diciotto anni. All’Università, poi, il programma Erasmus, che attualmente vede la partecipazione di trenta paesi (negli anni Ottanta erano dieci), ha consentito e consente una grandissima mobilità agli studenti, i quali possono ormai avvalersi di Internet per la fase organizzativa degli scambi e possono contare su voli low cost per il trasporto. Una volta rientrati in Italia, al termine della permanenza all’estero, si vedono riconosciuti, sulla base della certificazione esibita, gli esami sostenuti e le votazioni ottenute. Inoltre, recano con sé, né misurabile né quantificabile – al pari di molte delle cose che sono davvero importanti – una costellazione di conoscenze, di amicizie, di “validi legami”, i quali, come ebbe a dire una volta lo scrittore viennese Hugo von Hofmannsthal, sono i soli in grado di rendere “vivibile” la vita.

Ma da cosa nasce la voglia di viaggiare? A questa domanda non è certamente possibile dare un’unica risposta, valida per tutti gli uomini e per tutte le epoche. La grande poetessa russa Marina Cvetaeva, ad esempio, individuava nel bisogno di libertà e nel desiderio di approdo le motivazioni che stanno alla base del viaggio: “Esistono due tipi di partenze: partire da e partire per. Preferisco il primo”. La fuga e l’arrivo, dunque, l’ebbrezza del ritrovato mare aperto e l’incanto della meta raggiunta. Tra questi due estremi, tra il “da” e il “per”, germogliano e si distribuiscono ulteriori ragioni – ulteriori aspetti – del viaggiare, i quali, inizialmente né previsti né prevedibili, alla fine possono conferire allo stesso una natura nuova e inattesa. Succede così che il cammino intrapreso per tornare a casa si converta in un movimento erratico, che quello che pareva un semplice scalo lungo il percorso si trasformi in stabile dimora, che la vista di un cielo sconosciuto risvegli la nostalgia per un cielo noto, il quale ci appariva tanto angusto e soffocante, finché era testimone dei nostri passi, quanto ci sembra dolce e desiderabile ora che è lontano da noi.

D’altra parte – e nessuno lo ha detto meglio di Fernando Pessoa nel “Libro dell’inquietudine” – “I viaggi sono i viaggiatori”, ciascuno dei quali, con la sua personalità frammentaria e plurima, abita e descrive il mondo in maniere anche molto diverse a breve distanza di tempo. E ciò avviene, ancor più che nell’uomo maturo, nel giovane, la cui identità è appena abbozzata e davanti al quale si aprono ancora tante strade da poter imboccare, tante scelte da poter operare. Ecco perché il viaggio, come succede a Enrico e Anna, i giovanissimi protagonisti di “Boccalone”, il romanzo che di fatto inaugurò nel 1979 la nuova narrativa italiana, finisce spesso più con l’assecondare desideri subitanei e decisioni improvvise che non obbedire a un rigido e meditato programma. A conferma ulteriore che siamo creature plurali: dentro di noi ospitiamo tante persone e spesso sono loro, a nostra insaputa, a decidere per noi.

Vero è che per giovani di oggi il viaggiare non costituisce più la sola occasione che hanno di conoscere il mondo. Perché ciò avvenga, infatti, è sufficiente loro fare zapping in televisione alla ricerca del documentario giusto, guardare qualche video su YouTube, consultare qualche sito in Internet.  Ogni distanza, sia di ordine spaziale che di ordine cronologico, può essere facilmente annullata, e la conseguenza immediata di questa “logica dell’audiovisivo”, come la chiama il sociologo Franco Ferrarotti, è che “Tutto è schiacciato sul presente. Vince l’immediato. Non ha più senso la scansione temporale”. Perché allora continuare a viaggiare, anche quando ciò non è necessario o quando la curiosità è già stata soddisfatta per mezzo della Rete? Perché i luoghi occorre sentirli e non solo vederli. Perché la familiarità che conta – soprattutto nel corso dell’adolescenza e della giovinezza, contrassegnate dalla forza del desiderio e della creatività – non è quella che scaturisce dall’osservare (che può avvenire anche a distanza), bensì quella creata a partire dalla pelle, dal corpo, dal contatto fisico. Perché, da ultimo, l’uomo è “naturalmente” un homo viator: non è certo un caso che, alle origini della letteratura dell’Occidente, ci sia, accanto a un poema che narra la storia di una guerra (l’Iliade), un poema che narra la storia di un viaggio (l’Odissea).

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