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Jhumpa Lahiri, l’apolide dei sentimenti

Jhumpa Lahiri è nata in Inghilterra da genitori bengalesi, è cresciuta negli Stati Uniti, ha sposato un giornalista guatemalteco, ha vissuto per alcuni mesi a Roma (è innamorata dell’Italia e della lingua italiana). Comprensibile, insomma, l’apolidia che traspare nelle sue pagine, e quanto mai nell’ultimo libro intitolato, guarda caso, “Dove mi trovo”. Libro scritto in italiano (è il secondo concepito nella nostra lingua, dopo l’autobiografico “In altre parole”).  Si tratta di quarantasei ‘quadri’ dove il tema comune è proprio il radicamento e l’estraneità, ma non solo rispetto ai luoghi. Soprattutto rispetto alla vita, che è continua metamorfosi, immobilità e movimento; che se da un lato vorrebbe coincidere con i luoghi, le persone, le situazioni, dall’altro ne rifugge. Ecco cosa sperimenta di continuo la protagonista: nei posti, nelle relazioni umane, nei sentimenti che accompagnano le sue giornate. Sola in mezzo alla gente, ferma in un luogo ma già altrove, timorosa che un’amicizia, un affetto, una consuetudine possano diventare un legame (“Sono io e non lo sono, vado via e resto sempre qui. Questa frase scompiglia brevemente la mia malinconia come un sussulto che fa oscillare i rami, che fa tremare le foglie di un albero”). Per rendere l’idea di questa distanza, dello scarto esistente tra l’esserci e il non esserci, Jhumpa Lahiri utilizza una narrazione anch’essa molto distaccata, fredda, elementare (ha tenuto a dire che ha scelto la lingua italiana “per avere la libertà di sentirsi imperfetta”). Per noi apolidi – magari non geografici, ma sentimentali sì – “Dove mi trovo” può risultare utile meditazione su quanto faticoso sia ubicarsi in ‘luoghi’ certi, quanto sgomento comporti doverli abbandonare.
 
***
Per strada

Ogni tanto per strada nel mio quartiere mi imbatto in un uomo con cui avrei potuto avere una storia. Lui è sempre felice di vedermi. Convive con una mia amica, hanno due figli. Il nostro rapporto resta una chiacchierata dilungata sul marciapiede, un caffè al volo, magari due passi che facciamo insieme. Mi racconta entusiasticamente dei suoi programmi, gesticola, e ogni tanto mentre camminiamo i nostri corpi, già molto vicini, sincronizzati, si accavallano discretamente.
Una volta mi ha accompagnato in un negozio di biancheria perché dovevo scegliere un paio di calze da mettere sotto una gonna nuova. Avevo appena preso la gonna, servivano le calze per una cena quella sera. Abbiamo sfiorato insieme tutte le stoffe sciorinate sul banco, tutti i colori. Il campionario sembrava un libro pieno di pezzi di tessuto flebili, trasparenti. Era totalmente a suo agio tra i reggiseni, le camicie da notte, come se fossimo in ferramenta anziché in un negozio di biancheria. Ero combattuta tra il verde e il viola, È stato lui a convincermi a prendere il viola, e la commessa, mettendo le calze dentro la busta, ha detto: ha un buon occhio, tuo marito.
Questi incontri spezzano piacevolmente le nostre solite peregrinazioni. Ci godiamo un affetto casto, di sfuggita. Così non può avanzare, non può mai prendere il sopravvento. È un uomo pulito, vuole bene alla mia amica, ai loro figli.
Anche a me basta un abbraccio forte, anche se non condivido la mia vita con nessuno. Due baci sulle guance, due passi, un pezzo di strada insieme. Senza dirci nulla sappiamo che, volendo, potremmo avventurarci in qualcosa di sbagliato, anche inutile.
Stamattina lo vedo distratto. Non mi riconosce finché non arrivo proprio davanti a lui. Sta attraversando un ponte, lui arriva da un lato, io dall’altro. Ci fermiamo in mezzo e guardiamo le ombre dei passanti proiettate sul muro lungo il fiume. Sembrano fantasmi guizzanti in fila, anime ubbidienti che passano da un mondo a un altro. Il percorso del ponte è piano eppure sembra che le ombre – figure senza sostanza contro il muro solido – salgano, andando sempre in su. Sembrano incarcerati che procedano silenziosamente verso un traguardo nefasto.
“Sarebbe bello un giorno, filmare questa processione” mi dice. “Sai che non accade sempre, dipende dalla posizione del sole. Ne resto ogni volta impressionato, trovo che sia qualcosa di ipnotizzante. Anche se ho fretta mi fermo comunque.”
“Anch’io.”
Tira fuori il cellulare. Mi chiede: “Proviamo?”
“Come viene?” chiedo.
“Malissimo, quest’affare non cattura nulla.”
Continuiamo a guardare lo spettacolo muto, le figure nere che si muovono senza fermarsi.
“Dove vai adesso?”
“Al lavoro”
“Io pure”
“Ci prendiamo un caffè?”
“Oggi non ho tempo.”
“Allora ciao, ci vediamo.”
Ci salutiamo, ci separiamo, e diventiamo anche noi due ombre proiettate su quel muro: uno spettacolo quotidiano, impossibile da catturare.
 
[da Dove mi trovo di Jhumpa Lahiri, Guanda, 2018]  

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