“Non stiamo tutti al mondo nello stesso modo”. Più che un titolo un aforisma, un’intima considerazione di chi, trovandosi a fare un bilancio della propria esistenza, consideri quanta vita ha buttato via. E’ dunque un romanzo sul rimpianto l’ultimo libro di Jean-Paul Dubois (premio Goncourt 2019) ora pubblicato da Ponte alle Grazie per la traduzione di Francesco Bruno. Un rimpianto che – sia chiaro – la prosa svelta e asciutta di Dubois controlla benissimo da qualsiasi deriva retorica. Questa la vicenda. Paul Hansen è recluso nel carcere di Montreal dove sta scontando la pena di due anni per aver commesso un reato molto grave (solo alla fine del romanzo conosceremo di quale misfatto si sia macchiato). Paul non è un delinquente, è persona ammodo, lavoratrice. Non si capisce, peraltro, perché non intenda manifestare il proprio pentimento. Prima del fattaccio faceva il portiere tuttofare al condominio Excelsior, sessantotto appartamenti, un microcosmo di cui lui era “una sorta di deus ex machina al quale erano affidati la cura, la manutenzione, la sorveglianza e il buon funzionamento”. Un uomo, dunque, rigoroso e tranquillo. Certamente altra cosa dal suo compagno di cella, Patrick Horton, “un uomo e mezzo che si è fatto tatuare la storia della sua vita sulla pelle della schiena – Life is a bitch and then you die – e quella del suo amore per le Harley Davidson sulle spalle e sulla parte alta del petto.” Patrick è accusato di aver ucciso un uomo appartenente a una banda rivale di motociclisti. A parte l’ingombrante coinquilino (tanto grosso quanto vulnerabile) Paul in quella cella è pressoché solo con i propri fantasmi. Sono loro che lo vengono a trovare in molti momenti del giorno e della notte: i suoi genitori-strana-coppia, lui pastore protestante, lei donna spregiudicata; la pilota Winona, che ha sangue algonchino ed irlandese e che è stata sua moglie; il cane Nouk, il cui legame non può dimenticarsi. E poi i ricordi delle geografie attraversate nelle diverse età e frangenti storici: la Danimarca delle origini, la Francia del Sessantotto, le miniere di amianto del Québec, laghi e montagne canadesi. Ecco, strano a dirsi. Ma la reclusione offre a Paul una preziosa libertà; quella di starsene in pace con i propri fantasmi e nostalgie. Tutto ciò in ragione di una verità nemmeno troppo complicata: che non tutti possono stare al mondo nello stesso modo.
***
Nevica da una settimana. Accanto alla finestra, guardo il buio e ascolto il freddo. Che fa rumore, qui. Un rumore particolare, sgradevole: fa pensare che l’edificio, stretto in una morsa di ghiaccio, esali un lamento angoscioso come se soffrisse e cigolasse per effetto della ritrazione. A quest’ora la prigione è addormentata. Passato un po’ di tempo, fatta l’abitudine al suo metabolismo, la si può sentire respirare nel buio come un grosso animale, tossire a volte, e perfino deglutire. La prigione ci inghiotte, ci digerisce e, rincantucciati nel suo ventre, annidati nelle pieghe numerate delle sue viscere, fra uno spasmo gastrico e l’altro, noi dormiamo e viviamo come possiamo.
Il penitenziario di Montréal, detto di Bordeaux per essere stato costruito sull’antico sito del quartiere omonimo, si trova al numero 800 di boulevard Gouin Ovest, sul bordo del Fiume delle Praterie, 1.357 detenuti, ottantadue giustiziati mediante impiccagione fino al 1962. In passato, prima che questo universo di contenzione fosse costruito, questo posto doveva essere magnifico, con la giusta quantità di betulle, di aceri, di sommacchi americani e di alte erbe coricate dal passaggio degli animali selvatici. Oggi, ratti e sorci sono i soli superstiti di quella fauna. E, data la loro indole esuberante, hanno ripopolato questo mondo chiuso fatto di sofferenza ingabbiata. Pare che si adattino perfettamente alla detenzione e la loro colonia ha continuato a dilagare in tutte le ali degli edifici. Di notte si sentono distintamente i roditori all’opera nelle celle e nei corridoi. Per tenerli lontani infiliamo giornali arrotolati e vecchi indumenti sotto le porte o davanti alle griglie di aerazione. Ma non serve a niente. Loro passano, s’insinuano, s’intrufolano e fanno quello che vogliono.
Il tipo di cella in cui vivo è detto «condò», che significa «appartamento». Se si è affibbiato al mio spazio questo nomignolo ironico è perché ha una superficie leggermente superiore a quella del modello standard, il quale riesce a comprimere quel poco di umanità che resta in noi in sei metri quadrati circa.
Due letti sovrapposti, due finestre, due sgabelli fissati a terra, due tavolini, un lavandino, un wc.
Divido questa gabbia con Patrick Horton, un uomo e mezzo che si è fatto tatuare la storia della sua vita sulla pelle della schiena – Life is a bitch and then you die – e quella del suo amore per le Harley Davidson sulle spalle e sulla parte alta del petto. Patrick è in attesa di giudizio dopo l’assassinio di un Hell’s Angel appartenente al gruppo di Montréal, accoppato sulla sua moto dagli amici che lo sospettavano di collaborare con la polizia. Patrick era accusato di aver partecipato alla sua esecuzione. Date le sue intimidenti dimensioni e la sua appartenenza a quella banda di motociclisti che aveva all’attivo una notevole sequela di omicidi e assassinii, quando passeggia nei corridoi del settore B tutti si scostano rispettosamente davanti a lui come se si trattasse di un cardinale. Noto per condividere l’intimità della sua cella, godo nella sua scia dello stesso rispetto di quella specie di prelato.
Sono due notti che Patrick geme nel sonno. Gli fa male un dente e ha le fitte tipiche che dà un ascesso. Si è lagnato più volte di questo dolore con la guardia, che alla fine gli ha fatto portare del Tylenol. Quando gli ho domandato perché non si metteva in lista di attesa dal dentista, lui mi ha detto: «Mai. Se ti fa male un dente, qui questi figli di puttana non ti curano il dente, te lo strappano. Se ti fanno male due denti, stessa roba, te li strappano tutt’e due».
Coabitiamo da nove mesi e le cose vanno abbastanza bene. Una stravagante comunanza di destino ci ha fatti arrivare qui più o meno nello stesso momento. Patrick ha voluto subito sapere con chi avrebbe dovuto condividere ogni giorno la tavoletta del water. Allora gli ho raccontato la mia storia, ben diversa da quella degli Hell’s che controllavano la totalità del traffico di droga della provincia e non esitano a scatenare veri e propri conflitti, come quello che nel Québec, fra il 1994 e il 2002, fece centosessanta morti vedendoli fronteggiare i loro tradizionali nemici Rock Machines, poi assorbiti dai Bandidos. I quali, dal canto loro, non usurpavano davvero quel nome e dovettero subire a loro volta qualche batosta, come quando furono rinvenuti otto cadaveri, tutti membri della banda, sparsi a casaccio in quattro auto parcheggiate una accanto all’altra e immatricolate nell’Ontario.
Quando Patrick venne a sapere la causa della mia detenzione s’interessò alla mia storia con la benignità di un artigiano che venga a conoscenza dei primi maldestri tentativi del suo apprendista. Alla fine del mio modesto racconto, si grattò il lobo dell’orecchio destro divorato da un vistoso eczema. «A vederti, non ti avrei creduto capace di una cosa simile. Hai fatto bene. Sicuro come l’oro. Io l’avrei ucciso».
Forse, alla fin fine, era proprio quello che avevo desiderato fare e che, a detta dei testimoni, avrei fatto se sei persone intraprendenti non si fossero coalizzate per immobilizzarmi. In verità, a parte quello che mi hanno raccontato, serbo soltanto poche immagini dell’incidente in sé, quasi che la mia memoria avesse fatto una scelta selettiva, allora, prima del mio risveglio nella stanza del pronto soccorso.
«Cazzo, io l'avrei accoppato senza pensarci tanto su, quello stronzo. Certi tipi andrebbero aperti in due». Le sue dita continuavano a sfrucugliare l’orecchio infiammato e lui si dondolava pesantemente da un piede all’altro. In preda a una collera indecifrabile, pareva che Patrick Horton fosse pronto a passare attraverso i muri pur di portare a termine il lavoro che io avevo iniziato e, al tempo stesso, mandato a monte. Vedendolo ruggire a quel modo, grattarsi la pelle irritata, mi veniva da pensare all’affermazione dell’antropologo Serge Bouchard, profondo conoscitore delle culture amerindie: «L’uomo è un orso che è venuto male».
Winona, mia moglie, era un’indiana algonchina. Avevo letto e riletto Bouchard per imparare a conoscere lei. Allora ero ancora soltanto un francese buzzurro che ignorava quasi tutto dei trucchetti della tenda tremante, delle regole mistiche dell’essudazione, della leggenda costitutiva dell’orsetto lavatore, della ragione predarwiniana secondo cui «l’uomo discende dall’orso» e della storia che ci spiega perché «il caribù è macchiato di bianco soltanto sotto la bocca».
A quel tempo il carcere era per me ancora soltanto un concetto teorico, una facezia da gioco da tavolo che t’intimava di stare fermo un giro nella prigione del Monopoli. E quel mondo infagottato d’innocenza pareva costruito per l’eternità, proprio come mio padre, il pastore Johanes Hansen, intento a far vibrare il cuore degli uomini e le ruote foniche di un organo Hammond nella sua parrocchia protestante sommersa da valanghe di amianto benedetto; come Winona Mapachee e la sua dolcezza algonchina, che arrotondava le curve ai comandi del suo aerotaxi Beaver per posare senza scosse clienti e galleggianti sulla superficie di tutti i laghi del Nord; come la mia cagna Nouk che era appena nata e mi scrutava con gli occhioni neri quasi che io fossi l’inizio e la fine di tutte le cose.
Sì, amavo quell’epoca, già lontana, in cui i miei tre morti erano ancora in vita.
Vorrei tanto trovare il sonno. Non sentire più i topi. Non sentire più l’odore degli uomini. Non ascoltare più l’inverno attraverso un vetro. Non dover più mangiare del pollo marrone bollito in acqua grassissima. Non rischiare più di venir pestato a morte per una parola di troppo o per una manciata di tabacco. Non essere più costretto a urinare nel lavandino perché, a partire da una certa ora, non si può più tirare lo sciacquone. Non vedere più, ogni sera, Patrick Horton che si cala i pantaloni, si siede sulla tazza e defeca parlandomi delle «bielle incrociate» della sua Harley che, rallentando, «tremava come se rabbrividisse». A ogni seduta, si libera tranquillo e beato e si rivolge a me con una flemma sconcertante, tale da far pensare che la sua bocca e la sua mente siano del tutto scollegate dalla sua attività rettale. Non tenta nemmeno di modulare le sue flatulenze da sforzo. Mentre finisce di espletare, Patrick continua a informarmi sull’affidabilità degli ultimi motori oggi montati «su Silentbloc detti isolastici», prima di rassettarsi le brache come un uomo che ha finito la sua giornata lavorativa, e di posare sulla tazza un panno immacolato che ha per lui funzione di tavoletta e che per me era in parte il segnale della fine di una cerimonia e in parte un Ite, missa est.
Chiudere gli occhi. Dormire. Questo è il solo modo di uscire di qui, di lasciarsi i topi alle spalle.
D’estate, mettendomi nell’angolo della finestra di sinistra, riuscivo a vedere l’acqua del Fiume delle Praterie scorrere a tutta velocità verso l’isola Bourdon, l’isola Bonfoin e il fiume San Lorenzo che l’accoglieva e inglobava a un tempo. Stanotte, però, niente. La neve colmava tutto, anche il buio.
Patrick Horton non lo sapeva ma, verso quell’ora, capitava che Winona, Johanes e Nouk venissero a farmi visita. Entravano, e io li vedevo con la stessa nitidezza con cui potevo descrivere tutta la miseria incrostata in questa stanza. E mi parlavano, e se ne stavano lì, vicinissimi a me. Dopo tutti quegli anni in cui li avevo persi, andavano e venivano nei miei pensieri, erano a casa loro, erano in me. Dicevano quel che dovevano dire, facevano il loro comodo, si sforzavano di rimediare al disordine della mia vita e trovavano sempre le parole che finivano per accompagnarmi verso il sonno e la pace della sera. Ciascuno a modo suo, nel suo ruolo, con le sue prerogative, mi spalleggiava senza mai giudicarmi. Soprattutto da quand’ero in prigione. Al pari di me, non sapevano cosa mi fosse successo, come mai tutto fosse precipitato così in fretta, in pochi giorni. Non erano lì per scoprire l’origine della sventura. Si sforzavano soltanto di ricostituire la nostra famiglia.
Nei primi anni avevo avuto enormi difficoltà ad accettare l’idea di dover vivere con i miei morti. Di ascoltare la voce di mio padre senza tenere il broncio come quand’ero bambino, quando abitavamo a Tolosa e mia madre ci amava. Con Winona quell’inquietudine svanì in fretta per come lei mi aveva preparato alla leggenda di quell’inframondo algonchino all’interno del quale vivi e morti convivono. Diceva spesso che non c’era niente di più normale che accettare quel dialogo con i defunti che adesso vivevano in un altro universo. «I nostri avi conducono un’altra esistenza. E se vengono sepolti con tutti i loro oggetti, è perché possano continuare altrove anche le loro attività». Mi piaceva molto la fragile logica di quel mondo impastato di speranza e d’amore. Si inumavano quegli arnesi legati ai loro proprietari defunti e ritenuti in grado di funzionare, nel caso fossero elettrici, con tutti i voltaggi e tutte le prese dei mondi invisibili. Quanto a Nouk, la mia cagna, che sapeva tutto del tempo, degli uomini e delle leggi dell’inverno, che ci leggeva come libri aperti, veniva semplicemente a sdraiarsi accanto a me, come aveva sempre fatto. Senza intercessione di sciamani mi aveva ritrovato affidandosi soltanto al ricordo del mio odore. Dopo aver fatto un giro nelle tenebre era semplicemente tornata a casa e si era accucciata accanto a me, proseguendo così la nostra vita insieme dal punto in cui l’avevamo lasciata.
Sono stato rinchiuso nel carcere di Bordeaux proprio il giorno dell’elezione di Barack Obama, il 4 novembre 2008. Per me fu una lunga ed estenuante giornata, con il passaggio in tribunale, l’attesa nei corridoi del palazzo, la comparsa davanti al giudice Lorimier (che, nonostante un interrogatorio piuttosto benevolo, pareva pensare solo ai fatti suoi), l’arringa inconsistente del mio deprimente avvocato che mi chiamava «Janssen», m’inventava un «grave passivo psichiatrico» e dava l’impressione di scoprire per la prima volta la mia pratica o di perorare la causa di un altro, l’attesa della sentenza, la sua enunciazione biascicata da Lorimier, l’entità della pena, due anni pieni, che si perde nella memoria del tribunale, la pioggia torrenziale durante il viaggio di ritorno, gli ingorghi, l’arrivo in prigione, l’identificazione, l’odiosa perquisizione, tre in una cella grande come uno sgabuzzino per biciclette, «chiudi il becco, qui chiudi il becco», un materasso posato a terra, escrementi di topo, kleenex usati un po’ dappertutto, un vago odore d’urina, il vassoio del cibo, pollo marrone, buio pesto.
Un mese prima che Barack Obama s’insediasse ufficialmente nei suoi appartamenti alla Casa Bianca, io stesso sono stato trasferito nel mio nuovo alloggio, il «condò» che ancor oggi Patrick Horton e io dividiamo. Questo trasloco mi ha permesso di strapparmi all’inferno dei budelli del settore A dove la violenza e le aggressioni ritmavano le ore del giorno e a volte anche quelle della notte. Qui, pur senza essere al riparo da possibili intemperanze e, anche grazie al pedigree e alla stazza di Horton, la vita è più accettabile. E poi, quando l’imbarazzo di sé e il gravame del tempo diventano un fardello troppo pesante, basta arrendersi e abbandonarsi al ritmo lento e ostinato dell’orologio del carcere, sottomettersi alle scadenze dei suoi orari: ore 7, apertura delle celle. 7,30, si serve la colazione. 8, attività di settore. 11,15 pranzo di mezzodì. 13, attività di settore. 16,15, cena. 18, attività di settore. 22,30, coricarsi e chiusura delle celle. Divieto di fumare all’interno e all’esterno dell’istituto. Oggetti non autorizzati: console di gioco, computer, telefoni cellulari, fotografie a carattere pornografico. Il letto dev’essere rifatto prima delle 8 e la stanza riordinata, ogni mattina, prima delle 9.
È una strana sensazione per me essere così inquadrato e deresponsabilizzato. Per ventisei anni, nel quartiere di Ahuntsic, a meno di un chilometro da questa prigione – all'inizio è stato davvero sconvolgente per me ritrovarmi incarcerato così vicino a casa – ho esercitato il mestiere piuttosto impegnativo di «sovrintendente», una sorta di portinaio-mago, di factotum sempre disponibile capace di rimettere in ordine e di riparare tutto un piccolo mondo preciso, un universo complesso fatto di cavi, di tubi, di condutture, di raccordi, di bypass, di colonne, di scarichi, di contatori, un piccolo mondo dispettoso che non chiedeva altro che perdere il controllo, porre problemi, creare guai da risolvere d’urgenza con gran concorso di memoria, di conoscenze, di tecnica, di osservazione e a volte di un po’ di fortuna. Nel complesso residenziale Excelsior ero una sorta di deus ex machina al quale erano affidati la cura, la manutenzione, la sorveglianza e il buon funzionamento di quel condominio di sessantotto unità. Tutti i residenti erano proprietari dei rispettivi appartamenti e disponevano di un giardino ornato di piante e aiuole, di una piscina riscaldata, colma di 230.000 litri d’acqua salata, di un impeccabile parcheggio sotterraneo con annessa area di lavaggio, di una palestra, di un ingresso con sala d’attesa e di ricevimento, di una sala riunioni, detta «Forum», di ventiquattro telecamere di sorveglianza e di tre ampi ascensori marca Kone.
Per ventisei anni ho svolto un lavoro titanico, stimolante, anche sfibrante perché mai finito, praticamente invisibile, dato che consisteva semplicemente nel garantire l’equilibrio della normalità a sessantotto unità abitative sottoposte all’erosione del tempo, del clima e dell’obsolescenza. Novemilacinquecento giorni di vigilanza, di controllo, di interventi, novemilacinquecento giorni di indagini, di verifiche, di visite sul tetto, di giri a tutti i piani, centoquattro stagioni a trascurare a volte anche i miei doveri per aiutare un anziano, consolare qualche vedova, far visita a malati o anche accompagnare morti, come è capitato in un paio di occasioni.
Credo che l’educazione trasmessami da Johanes Hansen, di professione pastore protestante, non sia estranea all’abnegazione di cui ho dato prova in tutti quegli anni per tenere a galla tutto l’ambaradan. Lavorare a quel modo, tutto da solo, assolvere quotidianamente a compiti ingrati con serietà e precisione non mi sembrano cose contrarie allo spirito della Riforma quale Johanes lo promuoveva nelle sue chiese.
Non so nulla dell’uomo che, dopo di me, ha assunto quell’incarico e accettato di vivere nelle viscere di quella residenza. E non immagino nemmeno come si presentino oggi le interiora dell’Excelsior. So soltanto che quel piccolo mondo fantasioso di sessantotto unità, capace di dar luogo a una combinazione infinita di guasti, di grattacapi e di enigmi da risolvere, mi manca enormemente.
Mi capitava di parlare con le cose e con i macchinari e avevo la debolezza di credere che a volte loro riuscissero a capirmi. Oggi non ho che Horton, col suo dente e le sue bielle.
Io che ho così a lungo amministrato e regolato il buon funzionamento dell’Excelsior oggi sono costretto a conformarmi allo stile di vita da rammolliti del mio «condò»: ore 8: attività di settore, 16,15: cena, ore 21: feci dell’Hell’s, 22,30: coricarsi e chiusura delle celle.
Stamattina, appena sveglio, Patrick ha chiamato la guardia e chiesto un appuntamento urgente dal dentista. Lo teme più di un raid selvaggio dei Bandidos. Durante la notte la guancia gli si era gonfiata e il dolore lo rendeva elettrico. Andava e veniva nella cella in ogni direzione come un insetto rinchiuso in un boccale. «Ti scoccia rifarmi il letto, stamattina? ’Sto cazzo di dente mi fa un male cane. È una cosa che ho ereditato da mio padre. Anche lui aveva dei denti marci. È la genetica, dicono. Cosa? E che ne so, non rompere le palle con le tue domande da scemo, non è giornata. Cane fottuto di un dentista. Per di più pare che abbia la faccia da maniaco di Nicholson. Che ore sono? Quel rottinculo sarà ancora a casa a menarselo davanti ai suoi corn flakes di merda. Sai una cosa? Ha tutto l’interesse a curarmi al meglio, quel Nicholson, altrimenti, credimi, lo apro in due quel figlio di puttana. Che ore sono? Cazzo».
Per Patrick, soprattutto se gli fa male un molare, il mondo si divide in due categorie ben distinte di individui: quelli che conoscono e apprezzano i vocalizzi delle bielle incrociate delle Harley Davidson e, assai più numerosi, quei filistei degli «isolastici», che meritano di essere «aperti in due».
Stamattina ho un colloquio con un certo Gaëtan Brossard, un funzionario dell’amministrazione penitenziaria incaricato di istruire le pratiche di riduzione di pena prima di trasmetterle al giudice. Ho già incontrato Brossard tre o quattro mesi fa. Il suo fisico sprigiona qualcosa di rilassante e il suo viso, che sembra un calco di quello di Viggo Mortensen, lo suffraga nel suo ruolo di esaminatore benevolo.
Il nostro primo colloquio era stato di breve durata. Non aveva nemmeno aperto la cartellina che conteneva gli atti del mio processo.
«Il nostro incontro odierno è puramente formale, lo consideri un semplice abboccamento, signor Hansen. In considerazione dei gravi fatti da lei compiuti è per me sfortunatamente impossibile prendere in esame o in considerazione, allo stadio attuale, una qualsiasi forma di rimessa in libertà, anche associata a sorveglianza. Rivediamoci fra qualche mese e, se i rapporti sulla sua condotta sono buoni, allora forse potremo studiare qualcosa».
Brossard non è cambiato. Noto un particolare che la prima volta mi era sfuggito. Quando non parla, Gaëtan tende ad annusarsi la punta delle dita. A ogni inspirazione, le sue narici si dilatano, poi, probabilmente rassicurate dal fatto di riconoscere effluvi di molecole familiari, riprendono la loro forma originaria.
«Sarò franco con lei, signor Hansen. Le sue note personali sono eccellenti in tutto e per tutto e per ciò stesso sono tali da indurmi a trasmettere il suo fascicolo al giudice con un parere favorevole. Nondimeno, lei dovrebbe prima convincermi di aver preso coscienza della gravità del suo atto e di essersene pentito con tutta l'anima. Lei se ne è pentito, signor Hansen?»
Probabilmente avrei dovuto dire quello che si aspettava da me, profondermi in scuse, esprimere sentiti e sinceri rimorsi, formulare litanie di rammarichi, ammettere che quanto era successo quel giorno era per me ancor oggi incomprensibile, chiedere perdono alla vittima per le sofferenze che le avevo inflitto e, alla fine del mio atto di contrizione, abbassare il capo, vinto dalla vergogna.
Invece non feci nulla di tutto questo. Non una parola uscì dalla mia bocca, nulla di nulla, il mio volto rimase inespressivo come una maschera di ferro e dovetti fare dei grandi sforzi per non confessare a Viggo Mortensen che mi rammaricavo nel modo più sincero al mondo di non aver avuto più tempo o forza sufficiente per spaccare tutte le ossa di quel tipo spregevole, pieno di sé e ripugnante.
«Confesso che mi aspettavo altro da lei, signor Hansen. Una reazione più consona. Naturalmente, quando leggo la sua pratica, spulcio i suoi trascorsi e il suo passato, mi appare chiaro che il suo posto non è qui. Tuttavia temo che a causa della sua pervicacia nel non voler rimettersi in discussione, lei sarà costretto a rimanere qui per qualche tempo ancora. È molto spiacevole, signor Hansen. Ogni giornata trascorsa in questa prigione è una giornata persa. Non c'è nessuno che l'aspetta, fuori?»
Come spiegargli che, in questo momento, fuori non c’era nessuno ad aspettarmi, ma che in compenso, nella stanza in cui ci trovavamo – e io ne potevo sentire il respiro – Winona, Johanes e Nouk aspettavano da un pezzo pazientemente al mio fianco che lui si togliesse di torno?
Ancora sotto l’effetto dell’anestesia, sbavando saliva rossa nelle pieghe di un fazzolettino di carta, Patrick è di ritorno dall’ambulatorio del dentista. È evidente che il suo incontro con Nicholson è finito male. «Quello stronzo me l’ha tolto. Lo sapevo, cazzo, mi avevano avvisato. Ma quella merda non mi ha lasciato scelta. Mi ha detto che non poteva far niente per salvarmi il dente e che per giunta avevo un ascesso enorme. Mi ha mostrato una schifezza su una lastra e ha detto: ‘Eccolo qui, vede, è tutto infettato’. Non rompere i coglioni, gli ho risposto, fa’ quel che devi fare, ma ti avverto: se mi fai male, sei morto. Quello che mi ha infilato nella gengiva bastava a addormentare tutto il merdoso villaggio in cui sono nato. Vedi, non so quando uscirò, ma posso giurarti che non appena metto piede fuori di qui seguo quel rottinculo e lo apro in due».
Per stanotte si prevede una temperatura di ventotto gradi sottozero; percepita, trentaquattro, causa la presenza di vento. Fra quattro giorni è il 25 dicembre. Nicholson festeggerà il Natale circondato da tutta la sua famiglia dall’impeccabile dentatura paternamente sbiancata. La minore porterà ancora l’apparecchio ortodontico e sua madre le prometterà che è l’ultimo inverno che passa con quella ferraglia in bocca. Una grande varietà di palle e di luci ridicole scintilleranno e risplenderanno nella casa come in tutte le altre case della città, i grandi magazzini diffonderanno Christmas carols per lubrificare le carte di credito e, in un indecifrabile balletto, ogni sorta di oggetti inutili e costosi, strappati al nulla per tornarvi di lì a poco, passeranno di mano in mano mentre, per l’occasione, tutte le radio entusiaste programmeranno All I want for Christmas is you.
Qui, calato il buio, un prete declassato verrà a dire in fretta e furia una messa regolamentare per gli appassionati di genuflessioni e, senza davvero crederci, prometterà a tutti che un giorno saranno seduti alla destra del loro Creatore, prima di scappare via come un fulmine a respirare l’odore giovanile di un coro di chierichetti. Quanto a noi, miscredenti, empi, banditi occasionali e criminali incalliti, a noi spetterà una doppia razione di pollo marrone in salsa gravy accompagnato da una sorta di tortino alla crema d’acero stantia. Attaccando il mio piatto, con la faccia più seria del mondo, augurerò a Patrick Buon Natale. Masticando il suo gallinaccio inerte, lui mi risponderà: «Non rompermi le palle con le tue cagate».
[da Non stiamo tutti al mondo nello stesso modo di Jean-Paul Dubois, trad. di Francesco Bruno, Ponte alle Grazie, 2020]