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“In tutto c’è stata bellezza”, parola di Manuel Vilas

Il libro di Manuel Vilas “In tutto c’è stata bellezza” è una lunga, intima confessione sulla orfanità. Sulla mancanza di chi si è amato: i genitori morti, una moglie da cui si è divorziato, il tempo ormai andato. Dalla condizione di orfanità ecco allora il bisogno di ritrovare il legame (il senso) del passato che non è altra cosa dal presente e che nei nostri figli si prolunga nel futuro. In questo romanzo-memoir, Vilas intreccia la storia della sua famiglia alla storia spagnola degli ultimi decenni, così come mescola sentimenti, analisi socio-politiche, riflessioni sulle umane fragilità. C’è dunque il personale e il collettivo, il romanzo e l’autobiografia; fermo restando – dice l’autore – che si tratta di “due verità diverse, ma che sono entrambe verità: quella del libro e quella della vita”, e magari messe “insieme fondano una menzogna”. Tutti – sostiene ancora Vilas – dovremmo scrivere delle nostre famiglie, “senza nessuna finzione, raccontando ciò che è successo, o ciò che crediamo sia successo”. E’ un esercizio che porta a star bene, poiché serve a ritrovare il filo che lega le generazioni, rende coscienti della propria provenienza, ci definisce meglio nel nostro presente, ci riappacifica con le nostre omissioni, con ciò che non siamo riusciti a capire, con le cose non fatte, le parole non dette, i sentimenti inespressi. E’ forse anche un modo per elaborare lutti. Dunque non è immune da sofferenza. Però fa consapevoli che in tutto c’è stata bellezza.
 
***
 
Magari si potesse misurare il dolore umano con numeri chiari e non con parole incerte. Magari ci fosse un modo di sapere quanto abbiamo sofferto, e il dolore fosse materiale e misurabile. Un giorno o l’altro ogni uomo finisce per affrontare l’inconsistenza del suo passaggio nel mondo. Ci sono esseri umani che riescono a sopportarlo, io non lo sopporterò mai.
Non l’ho mai sopportato.
Guardavo la città di Madrid, e l’irrealtà delle sue case e delle sue strade e dei suoi esseri umani mi riempiva il corpo di piaghe.
Ero un ecce homo.
Non capivo la vita.
Le conversazioni con altri esseri umani sono diventate noiose, lente, dannose.
Mi faceva male parlare con gli altri: vedevo l’inutilità di tutte le conversazioni umane che sono state e che saranno. Vedevo l’oblio delle conversazioni mentre ancora si stavano svolgendo.
La caduta prima della caduta.
La vanità delle conversazioni, la vanità di chi parla, la vanità di chi risponde. Le vanità pattuite perché il mondo possa esistere.
È stato allora che ho pensato di nuovo a mio padre. Perché ho pensato che le conversazioni che avevo avuto con mio padre erano l’unica cosa che avesse valore. Sono tornato a quelle conversazioni, nella speranza di ottenere un istante di riposo nel bel mezzo dello svanire generale di tutte le cose.
[…] E ho cominciato a scrivere questo libro.
Ho pensato che lo stato del mio animo era un vago ricordo di qualcosa che era accaduto in un luogo nel nord della Spagna chiamato Ordesa, un luogo pieno di montagne, ed era un ricordo giallo, il colore giallo invadeva il nome Ordesa, e dietro Ordesa si disegnava la figura di mio padre nell’estate del 1969.
Uno stato mentale che è un luogo: Ordesa. E anche un colore: il giallo.
Tutto è diventato giallo. Che le cose e gli esseri umani diventino gialli significa che hanno raggiunto l’inconsistenza, o il rancore.
Il dolore è giallo, questo voglio dire.
Scrivo queste parole il 9 maggio 2015. Settant’anni fa, la Germania firmava la resa incondizionata. Un paio di giorni dopo, le foto di Hitler sarebbero state sostituite da quelle di Stalin.
La Storia è anche un corpo con dei rimorsi. Ho cinquantadue anni e sono la storia di me stesso.
[…] Se qualcosa ho capito della vita è che noi tutti, uomini e donne, siamo un’unica esistenza. Un giorno quell’unica esistenza avrà una rappresentanza politica, e quel giorno faremo un passo avanti. Io non lo vedrò. Ci sono tante cose che non vedrò e che sto vedendo in questo momento.
Ho sempre visto cose.
I morti mi hanno sempre parlato.
Ho visto talmente tante cose che il futuro ha finito per parlare con me come se fossimo vicini o perfino amici.
Sto parlando di quegli esseri, dei fantasmi, dei morti, dei miei genitori morti, dell’amore che provavo per loro, del fatto che quell’amore non se ne va.
Nessuno sa cos’è l’amore.
Dopo il mio divorzio (avvenuto un anno fa, anche se non si può mai sapere il momento preciso, perché non è una data, è un processo, sebbene ufficialmente sia una data; agli effetti giudiziari forse è un giorno concreto; in ogni caso, bisognerebbe tenere conto di molte date significative: la prima volta che ci pensi, la seconda volta, l’insieme delle volte, il rigoglioso accumularsi di fatti pieni di dissapori e discussioni e tristezze che via via puntellano quanto si è pensato, e finalmente l’andar via di casa, e quell’andarsene è forse ciò che fa precipitare la cascata di avvenimenti che terminano in un tassativo avvenimento giudiziario, che sembra la fine dal punto di vista legale; perché il punto di vista legale è quasi una bussola nel baratro, una scienza, nella misura in cui abbiamo bisogno di una scienza che fornisca razionalità, un principio di certezza) mi sono trasformato nell’uomo che ero già stato molti anni prima, vale a dire che ho dovuto comprare uno spazzolone e uno straccio, e prodotti per la pulizia, molti prodotti per la pulizia.
[…] Mio figlio mi ha aiutato a pulire casa. C’era un sacco di corrispondenza accumulata, piena di polvere. Prendevi una busta e avvertivi quella sensazione di lerciume che lascia la polvere, quasi sul punto di essere terra, sui polpastrelli.
C’erano lettere scolorite di amore antico, innocenti e tenere lettere di gioventù, le lettere della madre di mio figlio e di colei che è stata mia moglie. Ho detto a mio figlio di mettere tutto nel cassetto dei ricordi. Ci abbiamo messo anche le foto di mio padre e un borsellino di mia madre. Una specie di cimitero della memoria. Non ho voluto, o non ho potuto, trattenere lo sguardo su quegli oggetti. Li ho toccati con amore, e con dolore.
 
[da In tutto c’è stata bellezza di Manuel Vilas, trad. di Bruno Arpaia, Guanda, 2019]  

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