Lo psicologo americano Stanley Hall, già nei primi anni del Novecento, lo aveva scritto. Non c’è adolescenza che non sia caratterizzata, insieme alla conflittualità con i genitori e agli improvvisi sbalzi di umore, dalla propensione a tenere comportamenti rischiosi. La ragione, oggi lo sappiamo, è prima di tutto la conseguenza dello sviluppo cerebrale: a partire dai dodici anni, infatti, gli ormoni entrano in moto e determinano, accanto ai mutamenti fisici, anche l’ipersensibilità del sistema limbico, un insieme di strutture importanti per le emozioni. Di conseguenza, l’assunzione di droghe alla cieca, il consumo di alcol secondo la modalità del binge drinking, tuffarsi in piscina da un terrazzo del terzo o quarto piano di un albergo, attendere l’arrivo del treno sdraiati sui binari, guidare a folle velocità nella notte, consumare un rapporto sessuale non protetto nel bagno di una discoteca, diventano le manifestazioni di una ricerca di sensazioni forti, la quale, come ha dichiarato una volta nel corso di un’intervista Paolo Crepet, “fa parte del DNA” dei più giovani.
A dire il vero, però, il piacere legato al rischio non abbandona neppure l’uomo maturo. Lo sanno bene i lettori delle “Operette morali” di Giacomo Leopardi e, in particolare, di quel capolavoro che è il “Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez”, composto a Recanati nel mese di ottobre del 1824. Nel corso di una notte serena, così simile a quella di tanti celebri incipit lirici leopardiani, il navigatore genovese, conversando con un suo compagno di viaggio, gli confida che per la prima volta nutre dei dubbi sul buon esito dell’impresa (“confesso che sono entrato un poco in forse”). Eppure, quella condizione d’incertezza e il pericolo di andare per mare, gli paiono ancora preferibili alla noia e al tedio di una vita che, per farsi amare, occorre sempre che si sia sul punto di essere perduta (“Quando altro frutto non ci venga da questa navigazione, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione”).
Ma allora, se il rischio da sempre connota l’età dell’adolescenza e se neppure la maturità ne è del tutto immune, perché il tema merita di essere affrontato all’interno di un testo attento a sottolineare, in particolare, i punti di frattura, di differenza, di originalità dei giovani del terzo millennio rispetto alle generazioni precedenti? Perché gli studi e le ricerche ci informano che nel corso degli ultimi venti anni i comportamenti pericolosi hanno subito un’impennata decisa. Coincidenza non casuale. È stato proprio in quel ventennio, infatti, che le tecnologie digitali sono divenute egemoni – un semplice dato: nel 1995 gli utenti di Internet erano sedici milioni, nel 2012 avevano già superato i due miliardi – e il futuro è scaduto da promessa a minaccia – il mercato del lavoro è saturo, la salute della Terra è a rischio, a comandare il pianeta è una ristretta oligarchia, che detiene il potere, il denaro e il sapere –. La conseguenza è che il presente dai più giovani non viene più considerato come “la casa” dei progetti, delle speranze, delle attese, bensì viene visto come un vuoto melmoso, nel quale scivolano senza neppure accorgersene, risucchiati dal tedio, dalla rassegnazione, dalla tristezza suscitata dalla consapevolezza di essere loro The hollow Men di T.S. Eliot, anonimi, invisibili, impalpabili. Una corsa in macchina nella notte, un salto dal tetto di un palazzo a quello di un altro, un mix di alcol e di pasticche prima di camminare su una scogliera: sentirsi vivi, euforici, non pensare al domani, bruciare “qui e ora” per non avvertire fin dentro le ossa il gelo della vita. E magari, se si è fortunati, finire su You Tube, così da essere notati, così che qualcuno sappia che anche noi esistiamo (siamo esistiti), da qualche parte, in qualche luogo, Under A Blood Red Sky.