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Il miglior tempo. Generazioni che si sfiorano ma non si incontrano

Sono pagine còlte, partecipi, innervate di tensione morale, politica, pedagogica, quelle che compongono il libro di Alberto Rollo “Il miglior tempo” (Einaudi). Romanzo sul cortocircuito in atto tra una generazione di giovani spersi e irrequieti, e di chi, approdato alla sponda dei sessant’anni, ha vissuto niente male il suo tempo, tanto da bastargli a dispetto di qualsiasi futuro. Cosi che i primi – ancorché lo volessero – non trovano maestri disposti a dare loro qualche ragguaglio sulla vita e sul mondo. Questo inscenano i due protagonisti: Filippo “Cantor” Castelli, giovane sempre in movimento, attivo, impegnato, alla ricerca di sé e del suo posto nella vita (“Si sentiva perso nell’ora del mondo che avrebbe dovuto essere sua … Devo uscire, si disse quasi ad alta voce, anche se non aveva esattamente idea di dove andare”); il dottor Romagnoli, che di Cantor è stato il pediatra (dunque per certi aspetti lo ha cresciuto) e che, dopo la morte della moglie, ha abbandonato la professione, ormai “discepolo della propria solitudine” pervasa di rimpianti e della musica di Schumann. I due parlano, ma – in ragione di quel cortocircuito che dicevamo – difettosa è la trasmissione, disturbata la ricezione. Il dottore, ritiratosi sdegnosamente nella memoria di ciò che non c’è più, sembra preferire la consolazione di Schumann al disturbante ruolo di pedagogo. Cantor, stabilito che non esistono maestri (perché lui un maestro cercava), fugge lasciando tutto e tutti. Tra i tutti anche Anna che porta in grembo un suo figlio. Vigliacco o eroe? Fuga o coraggiosa scelta? Continua a chiederselo Romagnoli che, seppure a distanza, mai cessa di seguire Cantor nel suo mulinante andare; come un padre in apprensione che vuole capire, che si pone domande. E a questo interrogarsi non sfugge nemmeno il cosa sia stata la sua vita e, soprattutto, se esista un ‘miglior tempo’: che ciò vorrebbe per quel quasi figlio (lui non ne ha avuti) irrequieto, comunque proteso in avanti.
 
***
 
Messaggio vocale
20 settembre 2019
 
Mi auguro che tu possa sentirmi. Sei abituato ad ascoltare. Dunque ascoltami. La voce la conosci. Sai come fa. Non ho idea di che traccia lascerò in questo messaggio. Devo lasciarla, non foss’altro perché ti sei preso la briga di venirmi a cercare e io ho fatto l’impossibile per sottrarmi. È tutto il pomeriggio che faccio avanti e indietro nelle strade intorno al porto. A volte c’è qualcuno che guarda e allora dico: ecco, sono loro, adesso mi faranno un segnale, si faranno riconoscere, e allora io avanzerò sicuro. Ho la mia roba in una piccola pensione, vado a prenderla e vi seguo. Vedi, dottore, forse nient’altro aspettavo che questo: che qualcuno mi dicesse «Seguimi». Ho perso tempo? So di aver cercato in te una guida. Ti ho chiesto di esserlo. C’è niente di più arrogante? Ho incontrato persone meravigliose e ora mi sembra di averle deliberatamente perdute tutte, perché andavano perdute, perché io non voglio la meraviglia, e forse neanche la bellezza. Mi sono spesso immaginato di volere la giustizia. Accidenti, caro Romagnoli, ti pare che possa farcela? Si può andare a caccia di giustizia? Quando avrei dovuto cominciare ad arrendermi?
Fammi prendere fiato. Ho la testa confusa. Ora sto seduto in cima alla scalinata di Virgilio, sotto le colonne terminali della via Appia. Mi guardo i piedi, non me li ero mai guardati con questa curiosità. Sono lunghi, magri, nervosi, l’alluce rigido. Stanno dentro questi sandali come ospiti sgomenti, senza libertà. Provo qualcosa di simile alla pietà anche se non ho piaghe, ulcerazioni, tutto quello che fa dei piedi i testimoni della fatica. Ho bisogno di loro. Oh sì. Mi porteranno dove devo andare. C’è ancora abbastanza luce, c’è ancora quel rosso imbastardito d’azzurro, c’è quel lenzuolo di luce, e poi il mare. Sì, si vede da qui, si può guardare – anche questo l’ho imparato da te – con tutti gli uomini che lo hanno guardato da qui. E io sono solo l’ultimo di una schiera infinita. L’ultimo della fila che si chiede cosa troverà al di là del più antico dei mari, sulle coste della Grecia, della Turchia, del Libano. Partirò come sono partiti quelli che mi hanno preceduto. Mi senti? Non so se potresti mai benedire questa partenza. Cantor se n’è andato – così dovrai dire. E dovrai essere molto convincente.
Mi prendono per scemo, qui, con il telefono perpendicolare alle labbra. Dovresti vedere certe coppie salire la scalinata con l’antica grazia borghese della coniugalità in vacanza, ma poi c’è chi le discende mollemente, disperdendo tempo, e c’è chi resta, come me, a guardare.
A te basta un andantino, per darmi un posto nel mondo.
Ora che mi allontano, tutte le distanze si bruciano. Come quando si prende quota in montagna. Quando non c’è più eco e se gridi nessuno ti sente, e ti pare di sprecare il fiato.
Mi sto annoiando di me stesso. Abbi pazienza. Non abbandonarmi. Dovrà pur arrivare qualcuno.
C’è una brezza che fa quasi piangere e c’è uno sfrigolio nell’aria che è quasi musica. Quasi musica!
Cosa volevo dirti, Romagnoli?
Fra quattro mesi avrò trent’anni.
Ti saluto. E firmo, come scrivessi. Tuo Cantor.
 
[da Il miglior tempo di Alberto Rollo, Einaudi, 2021]  

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