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Il mago delle parole. Saper chiamare le cose ci fa partecipi del mondo

Dalla fine degli anni Ottanta, con l’uscita del film Dead Poets Society (in Italia intitolato L’attimo fuggente), se immaginiamo un bravo insegnante, carismatico, anticonvenzionale, fors’anche bislacco, si palesa subito la figura di Robin Williams nel ruolo del professore John Keating. Grande interpretazione che ha fatto inumidire il ciglio a milioni di spettatori (nella classifica delle pellicole più commoventi del cinema statunitense si trova al cinquantaduesimo posto).

Tra le cose che il professor Keating desidera trasmettere c’è il gusto, le molteplici declinazioni delle parole, in forza delle quali non solo conosciamo il mondo, ma possiamo perfino trasformarlo. Dice infatti ai suoi alunni: “Imparerete ad assaporare parole e linguaggio. Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo”. Ed è questa la frase che Giuseppe Antonelli – linguista, docente universitario, attivissimo divulgatore – ha posto in esergo al libro “Il mago delle parole” (Einaudi).

Un godibilissimo saggio narrativo dove un insegnante, fuori dagli schemi come il ‘collega’ Keating, conquista gli studenti con la sua dedizione e funambolica didattica, tanto che l’ora di italiano assume per i ragazzi il sapore di una continua avventura. Perché “la grammatica è una gran figata. È affascinante, intrigante, è stilosa, è alla moda, di tendenza: è trendy. Per essere più precisi, la grammatica è glamour”.

Questo aveva detto il prof il primo giorno di scuola a una scolaresca alquanto spiazzata davanti a un tipo di insegnante che appariva “fuori come un balcone”. E che tale continuerà a sembrare per il suo modo di porsi e fare lezione. Se in aula c’era confusione lui non urlava per richiamare disciplina, restava immobile con qualche oggetto sulla testa, in silenzio, finché non riaveva l’attenzione della classe. Interrogava senza dare voti, e le note di giudizio in pagella venivano composte in forma di sonetto.

Davvero bizzarro questo prof, completamente dedito a trasmettere amore e conoscenza per le parole e la grammatica, in ragione del fatto che “Le parole sono un fondamentale pezzo di mondo: a ogni parola in più che impariamo, il nostro mondo diventa un po’ più grande. Ogni nuova parola è una scoperta. Ogni nuova parola è una conquista. Ogni nuova parola è un passo nella strada che porta alla consapevolezza”. Ben venga, allora, tutto ciò che conduce a una siffatta conoscenza: giocare con le parole, contaminarle tra loro, smontarle e rimontarle nei tanti significati ed evocazioni, fondare una ‘Accademia d’arte grammatica’ da frequentare al di fuori dell’orario scolastico.

A raccontare questo mitico insegnante, ma soprattutto il bagaglio di conoscenze che lui ha saputo condividere, è una persona che anni prima sedeva sui banchi di quella classe e che, non senza nostalgia, ricorda quei tempi. Grata per una lezione fondamentale: imparare l’uso delle parole, dei loro costrutti, significa poter dare un nome alle cose, ai sentimenti, ai fatti; partecipare alla vita del mondo in piena coscienza e, appunto, con le parole giuste.

***

Quando entrò non ci fece una grande impressione. Aveva i capelli pettinati tutti precisi, con la riga da una parte. Giacca nera, pantaloni neri, cravatta nera sottile sulla camicia bianca. Neanche stesse andando a un matrimonio. Oggi direi azzimato, ma all’epoca non l’avrei saputo dire. È una delle tante parole che ho imparato dopo, comunque grazie a lui. Tu lo sai che vuol dire azzimato? Ci scommetto di no. Però ora non ho tempo di spiegartelo: magari appena hai un attimo vai a guardare sul vocabolario. Bisogna sempre avere a disposizione un buon vocabolario da consultare. Ormai basta pure un cellulare. Anche se, certo: leggerlo, il vocabolario, è un’altra cosa. Meglio quasi di un romanzo. Ma anche questa è un’altra storia: adesso voglio raccontarti della prima volta che è apparso in classe quello strano personaggio che negli anni successivi avremmo sempre rievocato come il mago delle parole.
Prima volta?
«Se la prima è volta, la seconda cos’è?» avrebbe chiesto lui sentendo quell’espressione.
Silenzio. (Perché noi non sapevamo mai rispondere, all’inizio).
«Se la prima è volta, la seconda è ri-volta. Rivolta, ribellione, capovolgimento: rivoluzione».
Quello fu per noi il suo arrivo: una rivoluzione. L’incitamento a rivoltare le parole da tutte le parti, fino a trovarne il lato che ci piace di più. Fino a trovare ogni volta l’incastro giusto per quello che vogliamo dire. L’insegnamento di non fermarci mai alla superficie, non accontentarci mai del primo significato. Ma scavare a fondo, per scoprire il doppio fondo delle frasi. Per capire cosa vogliono dire davvero le parole che sentiamo: cosa vogliono convincerci a fare o a pensare o ad accettare, condividere, comprare. Ci ha insegnato a essere liberi, libere.
In quel momento, nel momento in cui lui è entrato in classe, noi come al solito non stavamo pensando proprio a un bel niente. La verità? Stavamo facendo un gran casino. Il cambio dell’ora si prolungava già da un po’ e intanto non arrivava nessuno. In quei primi giorni di scuola eravamo ancora senza prof di italiano. Prima o poi sarebbe arrivata una supplente. Insopportabile, di certo, come la prof dell’anno scorso.
Invece entra questo tizio. Prende in mano il libro di grammatica e mentre noi continuiamo a chiacchierare e a tirarci bigliettini, comincia a ridere. Ma proprio a ridere forte, come se stesse leggendo cose incredibilmente buffe o guardando un film straordinariamente comico.
«Ah! Ah! Ah!»
Al che, piano piano noi cominciamo a guardarlo. Lui continua ancora un po’. E più il chiacchiericcio diminuisce più il suo ridere aumenta di volume.
Finché si ferma e fa: «Immagino che loro non provino interesse veruno per simili soggetti».
Quali soggetti? I libri?
«Già: i volumi, come questo che ho in mano…»
Che volume ha in mano?
«Immagino che loro vorrebbero conoscerne la trama, cercandola magari nella rete in cui si impigliano per intere giornate».
Loro?
«Lo so bene: c’è chi nei libri cerca sempre la trama. È gente sospettosa, che i libri non li ama. La trama la cerca con sospetto chi crede che dietro ci sia sempre un complotto. Loro – suppongo – staranno già pensando a qualche antivaccinista o terrapiattista o teppista da tastiera di quelli che credono a ogni cosa non vera».
Loro chi? Ma di chi sta parlando questo? Ci sta prendendo in giro?
«Su, non fate quelle facce che basta già che facciate la faccia che faccio io».
Ah, vabbè. Questo è completamente matto.
«La scuola, lo sanno bene anche loro, è un posto assurdo. Un posto che non ha pari sulla terra. Un luogo colmo di meraviglie, mistero e pericolo. Forse per sopravviverci bisogna essere un po’ matti. Come un cappellaio – avrebbe detto qui Alice – o forse come un parolaio…»
Ma io non ho detto niente, disse Alice.
Tranquilla, non hai sentito? Finalmente l’ha ammesso: è matto.
«Matto non so, ma parolaio senz’altro sì. D’altronde, vivo di prole».
Stavolta la risata fu la nostra.
«Lo concedo: in effetti avrei dovuto dire di parole. Sono un paroletario. Un proletario delle parole, conciossiacosaché proletario si diceva di colui che aveva come unica ricchezza i figli e mia unica ricchezza sono le parole con cui umilmente mi guadagno da vivere. Le parole sono le mie figlie – parole per prole – e come di figlie me ne prendo cura. La cura delle parole come cura della propria prole. Questa dovrebbe essere la missione di noi esseri umani. Ma è dunque giunta l’ora che anche loro lo sappiano: in realtà mi chiamo Marc; sono nato così, senza una o. Tuttavia sono un uomo posato: assumo molte pose, specie a riposo; posucce forse, ma non posate: ché le forchette pungono i coltelli tagliano e non vorrei raccogliermi con un cucchiaio. Sono uomo posato: l’unica posa che evito è sposarmi: sono cresciuto così, senza una esse. Se voi doveste mai farlo, mandatemi una partecipazione: perché ai matrimoni, si sa, l’importante non è sposarsi: è partecipare».
Ormai è ufficiale. Questo è completamente fuori.
«Lo so bene cosa state pensando. “Questo è fuori”… Mi dicano, però: fuori di testa? di zucca? di melone? O forse fuori come un balcone, come un citofono, come una mina. Fuori con l’accuso, magari. Fuori come il posto dove si troverebbero loro di cui sto parlando».
Già, appunto chi sarebbero loro?
«E invece non avete ancora capito che loro siete voi».
Sta’ a sentire: adesso parte la solita storia sugli altri che siamo noi e il prossimo e porgi l’altra guancia…
«Perché è di soggetti che stiamo parlando, in particolare di pronomi soggetto; per essere ancora più precisi: di pronomi allocutivi di cortesia. Quando vi rivolgete a un prof, gli date del tu?»
No, professore, gli diamo del lei, anche se è maschio: proprio come alle prof.
«Giustappunto. Quindi quando si dà del lei a più persone insieme, quale pronome si dovrebbe usare?»
Silenzio.
«Se una persona è lei, più persone chi sono?»
Silenzio imbarazzato.
«Guardatevi intorno…»
Silenzio quasi illuminato.
«Chi avete intorno?»
Loro!
«Proprio così. Rivolgendoci a più persone a cui diamo del lei, dovremmo dare del loro. Io, per capirci, vi stavo trattando con grande rispetto».
Brusìo soddisfatto della classe, ci scambiamo sguardi compiaciuti.

[da Il mago delle parole di Giuseppe Antonelli, Einaudi, 2025]

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