Quando io ero un adolescente, a fare paura era la possibilità di un conflitto nucleare tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. L’invasione dell’Afghanistan da parte dei Russi (1979) e l’elezione di Ronald Reagan alla presidenza degli USA (1981), infatti, avevano enormemente accresciuto il rischio di una guerra, dalle conseguenze catastrofiche, tra le due superpotenze. Lo straordinario successo di pubblico del film “The day after” (1983), scritto da Edward Hume per la regia di Nicholas Meyer, o della canzone “Dancing with Tears in My Eyes” (1984) del gruppo britannico degli Ultravox, si spiegano anche con la loro capacità di intercettare e di esprimere ansie e timori intergenerazionali, che, ovviamente, erano tanto più acuti e incontrollabili quanto maggiore era l’attesa di vita di chi li provava.
Oggi la guerra nucleare non fa più paura. Dopo la caduta del muro di Berlino, il crollo dell’Unione Sovietica, la trasformazione dell’economia cinese in un’economia di mercato, il pianeta pare destinato a conoscere soltanto guerre locali, guerre civili, indubbiamente difficili da risolvere, ma che escludono un coinvolgimento diretto sul campo delle grandi potenze. Resta il terrorismo, ma l’aspetto che esso via via è venuto assumendo – un attentato può avere luogo ovunque, in ogni momento, con tecniche differenti – ha finito col relegarlo nell’ambito dell’imponderabile, dell’imprevedibile e, soprattutto, dell’inevitabile: ci si abitua a conviverci, come si convive con una malattia, con un vizio, con un rimorso.
Forse è anche per questo che la maggior parte dei giovani, di età compresa fra i sedici e i ventun anni, le cui lettere sono state raccolte nel volume curato da Stefano Laffi e intitolato “Quello che dovete sapere di me”, non ha risposto indicando in un’esplosione nucleare o in una guerra di tipo classico ciò che più li angoscia e li spaventa. Piuttosto, da loro il principale elemento generatore di paura viene individuato nel futuro, percepito non già come il tempo della realizzazione delle proprie aspirazioni, capacità, inclinazioni, bensì come il momento – una sorta di presa di coscienza dolorosa – del disincanto, del fallimento, dell’esclusione. Una preoccupazione, questa, a prima vista eminentemente privata; ma, in realtà, il singolo individuo si trova sempre inserito in una dimensione sociale. Di conseguenza, come osserva Marc Augé in “Futuro”, l’espressione “costruirsi l’avvenire” è sbagliata, poiché “anche altri”, sempre, “partecipano a questa impresa”. La favoriscono, la contrastano, ma, in ogni caso, non possono chiamarsi fuori.
Nelle lettere confluite in “Quello che dovete sapere di me”, le quali, nel loro insieme, delineano un vero e proprio autoritratto generazionale, ritornano in particolare alcune espressioni, che consentono di comprendere meglio – in maniera più concreta e puntuale – quale sia l’immagine dell’avvenire che i nostri ragazzi recano in sé e che tanto li spaventa, talora perfino li blocca, li inibisce: “Ho paura di non concludere niente nella mia vita”, “ho paura di non essere all’altezza”, “ho paura di non trovare un lavoro”, “ho paura di non scoprire cosa voglio veramente”, “ho paura di sbagliare e di essere giudicata per le mie scelte”, “ho paura di non essere pronto, di non avere vissuto abbastanza di quel che la mia adolescenza poteva offrirmi”, “ho paura di non trovare un posto nel mondo”, “ho paura di chi o che cosa io possa essere”. A queste aggiungerei altre parole, ricavate dai racconti dei miei studenti: “Ho paura di venire delusa da chi amo”, “ho paura che, abituato ad avere tutto e subito in famiglia, quando si tratterà di lottare, per raggiungere un obiettivo lavorativo, mi mancheranno le forze”, “ho paura di non scoprire mai la mia autentica vocazione”.
Sono paure che, al di là della loro apparente varietà, sono riconducibili ad un unico timore di fondo, quello di rimanere soli. Non di ritrovarsi soli, d’un tratto, dopo che legami e relazione sono stati recisi – che però ci sono stati, che però hanno riscaldato e indirizzato, col loro valore educativo, stagioni di vita ed esistenze in fiore – bensì di continuare a essere lasciati soli. Preoccupazione legittima. Nessuna generazione, infatti, è stata abbandonata (già a partire dall’infanzia) dagli adulti in misura maggiore di quella attuale. I più fortunati hanno avuto un nonno a cui guardare, qualcuno ha incontrato un insegnante che gli ha schiuso finestre sul mondo, qualcun altro ha ritrovato in un maestro di musica o in un allenatore sportivo un testimone dell’incanto, senza paragoni, del coltivare e del difendere anche coi denti una vera passione. Il resto non ha avuto nessuno su cui contare. I genitori sono sempre stati troppo impegnati dal lavoro e col lavoro, i docenti, impoveriti e frustrati, si sono preoccupati unicamente di svolgere i programmi ministeriali, la televisione, la Rete, la pubblicità – vale a dire le nuove agenzie formative – si sono adoperate in ogni modo per assicurarsi nuove riserve di consumatori servili. E così i nostri adolescenti crescono senza ricevere né conoscere il gesto che alimenta l’autostima e quello che definisce regole e limiti, senza avere accanto un esempio di coerenza tra opinioni e condotta, tra inizio e conclusione, senza l’ausilio di chi aiuta a trovare la strada e non impone una strada, senza sperimentare la distanza che divide la richiesta di un oggetto dal suo conseguimento. Incerti, sfiduciati, insicuri, impazienti, a loro stessi ignoti, ansiosi, fragili, a volte i giovani del Terzo Millennio, nelle lunghe sere invernali, nel chiuso della loro stanza, inseriscono un CD nel lettore, si sdraiano sul letto e nelle parole di una canzone di Eric Clapton rinvengono quella che è la loro più grande paura: “Please don’t say we’ll never find a way”.