Home » Il dono di Antonia, da dove si inizia a diventare madre?

Condividi su:

Libri collegati

Il dono di Antonia, da dove si inizia a diventare madre?

E’ un tema forte quello affrontato da Alessandra Sarchi nel romanzo “Il dono di Antonia” (Einaudi): il tema della maternità, che si complica ulteriormente quando, ricorrendo alla fecondazione eterologa, può dirsi che le madri siano due. E chi lo è di più? La protagonista del romanzo è Antonia, che gestisce in prima persona una piccola azienda agricola nella campagna bolognese, munge le mucche, governa gli animali, coltiva l’orto. Per rilassarsi e mantenersi in forma fa delle belle nuotate nella piscina di proprietà e di cui cura personalmente la manutenzione. Ha un marito e una figlia adolescente, Anna, con problemi di anoressia. E non è facile gestire il problema sorvegliando sulla ragazza senza essere asfissiante. Tant’è che frequenta un gruppo di sostegno per genitori con figli che soffrono di disturbi dell’alimentazione. Questo è il presente di Anna, una vita sostanzialmente routinaria. Se non che un giorno giunge la telefonata di un ragazzo americano che chiede di volerla incontrare. Il presente è così costretto a ribaltarsi nel passato. A quando Anna, a ventisei anni, era andata a vivere in California ed aveva donato un ovulo a una cara amica che desiderava diventare madre, ma non poteva. Da quell’ovulo era stato generato Jessie. Ora il ragazzo, saputo che era al mondo anche grazie ad Anna, vuole conoscerla, sapere le ragioni di quel gesto (generoso? incosciente?) e per quale motivo fosse poi sparita. Ecco, così, che mentre una figlia cerca di svincolarsi da lei, un quasi-figlio la cerca. Da ciò la complessa domanda su quando e come si sia veramente madri (“Da dove si iniziava a diventare madre?”). Ma non solo, per ciascuno di noi non è sufficiente sapere “chi sei”, ma anche “di chi sei”.
 
***
 
L’acqua cominciava a entrarle nella cuffia, ne sentiva le bollicine e l’insinuarsi ripido lungo il cranio, ma si obbligava ad andare avanti. Se sopravviveva all’acqua gelida, poteva farcela anche col resto.
Alla decima vasca, i pensieri erano tornati ad affacciarsi, i più complicati, come controcorrente. Decise che sarebbe andata all’incontro con il gruppo di sostegno per i genitori; dopo il primo, Paolo le aveva detto che non faceva per lui, che era stanco di scavare nel proprio disagio e che non sentiva la necessità di entrare in comunione con quello altrui. Non poteva certo obbligarlo a fare una cosa in cui non credeva, e d’altronde lei stessa non sapeva cosa aspettarsi. Riconoscere affinità e problemi comuni, sfogarsi, scambiarsi ricette di sopravvivenza già non sarebbe stato male, ma le era sembrato di intravedere dell’altro nelle facce di alcune madri, appena si era allentata la moderazione della psicologa, all’uscita della riunione: il bisogno di confessione, smettere di parlare delle figlie e parlare di sé. Un bisogno disperato di parlare di sé.
Alla ventesima vasca, la sensazione euforica di calore interno prodotta dal nuoto si stava trasformando in fitte che sbriciolavano i muscoli delle gambe e delle braccia.
Antonia raggiunse l’ultimo gradino e si sollevò dall’acqua, mettendosi a sedere sul bordo. Aveva la pelle d’oca, anche se il sole era forte. Come ogni anno, al suo primo bagno, si ricordò di un’altra piscina, dove l’acqua era sempre piacevolmente tiepida, e dove a lungo aveva nuotato tuffandosi senza indugi, o meglio senza quella sosta di chi non sa se ce la farà, di chi potrebbe cambiare idea. Era una ventenne, in un Paese lontano, e non indugiava su niente.
Si tirò su scrollandosi i capelli, le gocce caddero di nuovo in acqua a formare piccole sfere, Antonia le guardò e pensò: uova. Tutta l’euforia della nuotata si condensò in un paio di lacrime inattese. Sbalzi ormonali tipici del climaterio, quanto l’arrotondarsi della pancia e l’ispessirsi dei fianchi, avrebbe detto la sua ginecologa; climaterio, il termine scientifico le piaceva di più di menopausa, alla quale associava l’idea sinistra di una discesa senza freni.
Vide uscire dalla porta di casa e sostare sotto la veranda la figura esile di Anna in mutande e felpa, cercava il caldo del sole.
Anna si sporse da sotto la pergola di glicine e fece una smorfia in cui Antonia riconobbe se stessa. Aveva i colori e i lineamenti del padre, ma le espressioni erano le sue, rivederle nella figlia le dava l’impressione di essere stata osservata e imparata a memoria, a sua insaputa. Anna disse a voce alta: – Sei matta, mamma –. Antonia sorrise, aveva le labbra bagnate di lacrime e cloro, le asciugò con il cappuccio dell’accappatoio avviandosi verso di lei.
 
Rispetto alla settimana precedente il gruppo si era ristretto, mancavano una coppia e due padri. Antonia, seduta nel cerchio di sedie che occupava la stanza, aveva già fatto il conto, prima ancora che la moderatrice li salutasse e scorresse l’elenco dei nomi che si era appuntata.
Erano titubanti, si capiva dagli schiarimenti di gola e dai cigolii delle sedie sottoposte a continue variazioni di peso: due gambe accavallate, poi distese, divaricate e riaccavallate, la schiena portata in avanti, avambracci sulle ginocchia, oppure schiena indietro, sguardo al soffitto.
Rompere il ghiaccio era la cosa più difficile, aveva detto la moderatrice; eppure dopo la riottosità iniziale avevano parlato, non tutti, ma quasi, alcune madri come fiumi in piena. Il ghiaccio pareva essersi riformato, forse più sottile, ma era comunque presente, nessuno di loro dava l’impressione di voler fare quella fatica di nuovo, la fatica di riconoscersi nel prossimo, la persona seduta a fianco o di fronte. Anche l’afflizione diventa cara se ci fa sentire unici, se ci lega con un nodo ancora più stretto a chi amiamo. Lo aveva detto una madre al primo incontro: «Del rapporto con mia figlia mi è rimasta solo la sofferenza, eppure non rinuncerei nemmeno a quella». Bisognava allora ricordare a se stessi, ricordarsi a vicenda, che era per amore se ci si ritrovava sotto la luce impietosa di un neon, in un’anonima sala riunioni dell’ospedale, in mezzo a perfetti sconosciuti.
[…] La moderatrice fece alcune considerazioni che tutti approvarono annuendo, e riaggiornò l’incontro alla settimana successiva. Il cerchio lentamente si frastagliò.
Antonia si alzò dalla sedia con la stessa riluttanza con cui ci si era seduta, un’ora prima. Alice occupava ancora la sua, né quella volta, né la precedente era venuta con il marito. Era una donna con una faccia attraente, anche se un po’ segnata, specie intorno agli occhi, dovevano essere tutte quelle notti di lavoro, anche se la forma stessa, con le palpebre larghe e incurvate verso il basso, suggeriva lo stampo di una malinconia non passeggera. Ad Antonia aveva fatto una simpatia istintiva, forse perché le piaceva sapere che una donna medico prendesse parte a quei raduni.
Le chiese se avesse mangiato il pan di Spagna con la marmellata e tutto il resto. Alice rispose che se l’era domandato anche lei riguardo ai cibi elencati dagli altri genitori. Li avevano poi mangiati? Lei ci aveva fatto colazione e merenda con quella torta, il resto, vai a sapere, era sparito. Poi aggiunse che era rimasta colpita da quello che aveva detto Antonia, cioè che non sentiva il sapore. Era accaduto anche a sua madre, ma per altre ragioni, era malata d’Alzheimer, e diceva di non distinguere piú un gusto dall’altro. Antonia aveva alzato le sopracciglia, un altro fatto sul quale non si poteva avere nessun controllo: la malattia della vecchiaia.
Alice si alzò dalla sedia e disse che la cosa sulla quale si ha meno controllo è il passato, e la memoria, e nel passato può esserci di tutto.
Antonia aveva sperato di sentire qualcosa del genere: era vero, poteva esserci di tutto nel passato, di chiunque. Ci fu un breve silenzio. La madre che occupava il posto di fianco ad Alice, e che Antonia aveva solo intravisto, s’inserì nella conversazione. Disse di chiamarsi Sara, e disse che si poteva anche scavare nel passato – chi non l’aveva fatto? – però i guai con sua figlia erano iniziati dal nulla e continuavano nel nulla. Per quanto lei avesse cercato, non era riuscita a trovare un atteggiamento, un gesto, una condotta che corrispondessero a quelle che si dicevano le cause abituali della malattia e allora, in tutta onestà, non sapeva più che pensare, e quasi invidiava chi aveva un passato su cui far ricadere la responsabilità.
Quest’ultima frase la pronunciò sorridendo, come fosse un modo per giustificare la sua interruzione e non sentirsi esclusa. Guardava Antonia e guardava Alice, con l’intensità con cui si guarda qualcuno da cui ci si aspetta una risposta decisiva, voleva che si sentissero importanti.
Antonia avvertì di nuovo l’impulso che aveva riconosciuto la settimana prima: confessarsi e ascoltare una confessione, non sapeva di preciso, probabilmente entrambe le cose.
 
[da Il dono di Antonia di Alessandra Sarchi, Einaudi, 2020]  
 

ISCRIVITI AL CANALE WHATSAPP DI TOSCANALIBRI

Per continuare a rimanere aggiornato sui principali avvenimenti, presentazioni, anteprime librarie iscriviti al nostro canale e invita anche i tuoi amici a farlo!

Siamo entusiasti di condividere con voi le ultime novità, aggiornamenti e contenuti esclusivi per rimanere sempre aggiornati e connessi con Toscanalibri.