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Il cinghiale che uccise Liberty Valance

L’escamotage di rendere umani gli animali, non è certo nuovo in letteratura. Ma la ‘fabula’ che ha intessuto Giordano Meacci con “Il cinghiale che uccise Liberty Valance” – ambientato in un immaginario paese tra la Toscana e l’Umbria – ha il pregio della singolarità per forza narrativa, originalità di scrittura, tensione emotiva. Un cinghiale acquista la consapevolezza della vita e della morte e dei sentimenti che ne derivano, divenendo così troppo umano per essere capito dai suoi simili, ma sempre troppo bestia per non essere temuto dagli uomini. Un bellissimo apologo. Un romanzo commovente.
 
Il vento, lo scirocco puntiglioso e affannato che sbatàcchia le cime dei cipressi come se volesse cercare di tirargli fuori un qualche tuùng di campana a morto, quasi scavando punta per punta per sottrarre ai pennelli il calore verde di un’ottava inferiore – o di una terza maggiore – che invece il poco spessore ritratta: e intanto alleggerisce lo stridore del fruscio verso i toni nylon dello sfregamento, a ogni oscillazione; il vento, una danza a vortici che da sud-sudest spàzzola via gli aghi di pino insieme con i folletti brumosi e storditi dall’afa del primo pomeriggio, sembra spaccare l’argine del Nardile come in un riflesso di Henry Fox Talbot appena fissato dall’ultima luce: il piano verticale sull’orizzonte di sassi della proiezione, ingiallito di spighe di mais, e di farina di granturco, il paesaggio dilavato di castano e di ecru, la terracotta del sole sbiadita nell’esplosione trasparente dell’acido e nei rossi vanificati dal solfito di sodio. E poi sotto, più sotto: la cenere febbricitante dell’argento quando smette di valere per eccesso di quotidianità. […] Vista dall’alto, la torsione laterale del serpente di persone che s’insinua, torrentizia, tra le curve della collina è un brulicare leggero e smanioso dei frammenti che la compongono e la condizionano: gran parte del paese che si muove al séguito di don Sebastiano, in punta di funerale: e appena dietro di lui il quartetto incongruo di Amedeo, Marcello dei Giacchetti, Mauro; e il vecchio Donato: ognuno uno sforzo differente sul viso, l’atteggiamento richiesto dalle attese emotive dei corsignanesi, mentre il vento riscrive i confini degli abiti — con una forza quasi sconosciuta ai pomeriggi di luglio dell’ultimo secolo, almeno stando a quello che si comincia a mormorare tra le file sparse e allungate della processione.
Un vento così, si continua a mormorare – i venticelli spersi della calunnia, il vento smargiasso che sciàbola il monte Arlecchino e arriva con la sua kilij di polvere e caldo sulle falde delle giacche, tra le pieghe di cotone delle magliette – un vento così non si vedeva (e poi «addìlla tutta, mai, mai così forte, madonnadiddìo», la voce dell’Argìla, in comunella standard con quella, più sgraziata e alta, della Norma dei Rosignoli, che conferma e rincàra) almeno almeno dal funerale della Telda dei Lucchesi, no? La Norma che risponde con un sì scontato del capo: un vento che allora – quanto? Venticinque? Trent’anni fa? Forse pure di più – allora era sembrato la conferma evidente e insindacabile dell’anima nera della Telda, visto anche il lavoro che faceva, giù, vìa, era quasi naturale che il vento «se la portasse all’inferno ancora prima dell’arrivo a’ ’i ccimitero…»: anche se poi – sempre addìlla tutta – nessuna famiglia, nella contabilità fantasma dei ricordi di paese, poteva dirsi privata delle capacità lavorative della Telda dei Lucchesi, la levatrice.
«Ché quello che si tira via in un modo, e’ si pò tirà ’vvìa anche in un altro, e’ si sa»: la brutale, infernale – questa sì, nei modi – spiegazione dell’Argìla alla su’ figlia quando – anche lei: la prima a ricordarsi del vento, in questo pomeriggio di luglio, le raffiche dello scirocco ad alzarle il foulard azzurro e oro in poliestere – anche lei, anche l’Argìla, votata alle bravure della Telda quando la Nunzia, la su’ figliola, nell’estate del Sessantadue, all’inizio d’agosto, aveva dovuto affidarsi alle cure ambulatoriali della mammana, il figlio dei Còlzari troppo stupido per pensarlo proseguibile in una qualche forma natale, «almeno no cco’ la mi’ figliola», aveva spiegato l’Argìla alla Telda, che aveva preso per mano la Nunzia e l’aveva fatta sdraiare sulla brandina da campo che la levatrice teneva accanto al letto matrimoniale, alto, i due materassi di crine poggiati a baldacchino: l’Argìla lì, ad accompagnare la figlia e a controllare che tutto fosse preciso e silenzioso, il caldo pressante dell’estate a imporre le medie record di quaranta e più gradi, mentre il corpo di Marilyn Monroe – proprio allora, in quel preciso momento chirurgico, solo a diecimila chilometri di distanza – traslocava in overdose da Brentwood alle terre sfitte (se poi si tratta di terre) dai cui confini, di solito (qualche caso chiacchierato a parte) non torna nessun viaggiatore. […] Ma se il vento della Telda era pienamente giustificato, questo scirocco qui, invece, è immotivato per l’Agnese degli Andreoli, la madre di Walter, la figliola di Osvaldo (ché i Malpighi e Salvo, soprattutto, erano poco nominati, da sempre: quasi una damnatio cognominis evitata dall’amore incondizionato per Walter che tutta Corsignano, istintivamente, nutriva): è questo che scuote tanto l’Argìla quanto la Norma sua complice di bisbìglio, entrambe alla ricerca di un’intuizione di malizia, un barlume imprevisto e sospeso che in qualche modo le illùmini, motivando la dicerìa, antichissima, delle raffiche d’accompagnamento funebre alle anime malvagie del paese.
 
[da Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Giordano Meacci]  

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