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Il babbo era un ladro. La storia di Ubaldo Cecchi sulle pagine di Paolo Ciampi

L’ufficio è un posto particolare: succede di lavorarci per anni, stando otto ore al giorno spalla a spalla con le stesse persone, colleghi che poi diventano amici, compagni imprescindibili del vivere quotidiano, e che si pensa di conoscere alla perfezione. Poi, una mattina, durante la consueta pausa caffè consumata in fretta come mille altre volte, tra l’acciottolare delle tazzine al bancone e l’accalcarsi di avventori alla cassa, una collega ci fa una confidenza, racconta una parte della sua vita che teneva celata e che noi, nella nostra pretesa conoscenza, non avremmo mai immaginato che potesse sussistere. È questo all’incirca ciò che accade nella vita di Paolo Ciampi e così si apre il suo volume, “Il babbo era un ladro. Storia fiorentina di amori e galere” (Betti Editrice). Bruna, sua collega da sempre, proferisce proprio la frase che fa da titolo a questa vicenda singolare, tutta toscana, che è una via di mezzo tra la biografia di un ladro, i racconti autobiografici di Bruna e la narrazione delicata, rispettosa e profonda di Ciampi che riporta l’accaduto.

«“Era un delinquente, il babbo. Lo era davvero. Un ladro che è entrato e uscito di galera. Però lo sai, Paolo? Forse era anche altro… E io di lui non so niente”. Si incaglia su quel niente, che non è mai parola da prendere alla leggera. Niente è niente, dopo che si può dire? Solo occhi arrossati, lacrime che non si vergognano di spuntare tra la ressa degli estranei. Ma soprattutto silenzio. Ora perfino Firenze, intorno a me e intorno a Bruna, è come arretrata di un passo. Incredibile. Forse ci siamo costruiti la nostra campana di vetro. I pensieri sono diventati stormo di uccelli che un rumore scompiglia. Mi succede spesso, da un po’ di tempo a questa parte. E dunque, uno di questi pensieri è in realtà un punto interrogativo: perché mi sta raccontando tutto questo?» (pp. 5-6). Ed è da questa domanda che muove l’intera trama o – per meglio dire – l’intera indagine di Paolo e di Bruna a ritroso nel tempo sulle tracce di quel ladro che era anche artista, visto che dipingeva quadri, era poeta, visto che scriveva poesie, era un uomo che amava il bel vivere, che aveva appena conosciuto la figlia, sia pure troppo tardi, poco prima cioè che la galera gli impedisse di vederla crescere.

Ma i legami di sangue non si spezzano, sembra dirci Ciampi: non c’è legge umana che valga più dell’affetto, profondo al punto di essere insondabile, che lega un padre a una figlia. E così è Ciampi a suggerire a Bruna di scrivere ed è Bruna infine a consegnare a Paolo un plico di appunti, vecchie foto sbiadite da tempo, un puzzle di ricordi insomma per ricostruire una vicenda umana singolare. E Paolo Ciampi, bisogna dirlo, scrive la vicenda di Ubaldo Cecchi, detto Cicoria, il grande ricercato della Firenze del dopoguerra, e la scrive bene: è così piacevole scorre queste pagine e ritrovarsi in una storia senza tempo, di quelle da romanzo, in cui la vita avventurosa di un ladro artista e poeta si mischia al fluire delle tante vite della Firenze degli anni Cinquanta! Seguiamo Paolo e Bruna immersi nella lettura di giornali d’epoca alla ricerca degli articoli dedicati all’ultimo colpo degli specialisti del traforo, ci commoviamo per l’affetto profondo che le poche e lapidarie battute di Bruna tradiscono, ci stupiamo di come i problemi della Firenze del ’49 non siano tanto distanti da quelli della Firenze di oggi e, nello stesso tempo, rimpiangiamo le imprese di questo ladro poeta che vorremmo di gran lunga oggi sulle pagine dei nostri quotidiani, al posto dei tanti efferati omicidi, femminicidi e violenze di ogni sorta. Una storia appassionante, che si legge in un soffio, mentre ci innamoriamo di Cicoria, comprendiamo la portata tragica di due guerre mondiali appena passate, sbirciamo la Firenze di allora, lasciando che un pizzico di malinconia – tanco così! – ci arrivi al cuore.

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