Stefano Valacchi è al suo debutto narrativo con un romanzo che si lascia apprezzare per la scrittura fluida, fresca, letteraria – solo – quanto-basta. Il tema è “il 68”, ma – tranquilli – nulla di nostalgico trapela, né si ravvisano pretese di chissà quali analisi del tempo che fu, giusto cinquant’anni fa. Già il titolo lo lascia intuire: “Non sapevamo fossimo il 68”. Vale a dire che la consapevolezza di quegli anni non fu per tutti uguali. A maggior ragione per tre ragazzini – loro sono i protagonisti del racconto, una sorta di metafora – che scorrazzano, con qualche eccesso di vivacità, per le viuzze e la campagna di Cestaia, un paesino a pochi chilometri da Firenze.
Loro, ovviamente, non sanno cos’è il Sessantotto. Ma i loro giochi, fatti di eccitazione, battaglie e bricconate, appaiono come posseduti dallo spirito dell’epoca. Ancora di più quando il Sessantotto sfiora realmente quel luogo fuori dal mondo attraverso la presenza di due ragazze figlie di figli dei fiori.
Nel romanzo di Valacchi pare esserci un’idea di fondo: che le cosiddette mutazioni epocali avvengono in modi, forme, tempi diversi. Hanno, in taluni casi, una loro levità. Germinano, imprevedibili, anche negli anfratti dei piccoli mondi, magari sotto mentite spoglie; nelle geografie più recondite (comprese quelle del pensiero e del sentimento delle singole persone). Idea che nel libro viene argomentata dall’impettito professor Antonucci, laddove sostiene che la rivoluzione a Cestaia è stata provocata da “tre ragazzini, che con la loro irruenza hanno devastato la patina protettiva che ricopriva gli abitanti del paese, esponendoli ad un cambiamento strutturale”.
Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, con le sue molteplici contraddizioni, inquietudini, spensieratezze, nel racconto di Valacchi si fa dunque metafora, chiave di lettura di un’epoca. Avverte l’autore: “I giovani lottavano nelle strade per un futuro migliore contro quello che avevano edificato i loro padri. Nelle piazze rivendicavano la fantasia al potere. I bambini non chiedevano nulla. Loro la fantasia al potere ce l’avevano già portata”.
Il romanzo scorre privilegiando un registro giocoso, così fino all’epilogo in cui i tre ragazzini, diventati adulti, inscenano una commedia dei travestimenti. Ma, lungo il racconto, troviamo anche inserti – e qui la scrittura diviene più ponderata – che, come didascalie di teatro brechtiano, scandiscono il racconto tra evocazione, apologo, sogno, flash back… richiamando situazioni e frangenti storici diversi. Questo ricordo un po’ sghimbescio del Sessantotto, sospeso tra l’oggi e l’allora, diverte, evoca, fa pensare, perché – come suggerisce Stefano Valacchi – “il senso della vita non è in quello che ti capita, ma in quello che fai di ciò che ti capita”.