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I giovani e la bellezza. Una condanna che avvelena e rattrista

“E il corpo è l’uomo”. Questa non è semplicemente una citazione tratta dal “Dialogo di Tristano e di un amico”, una tra le più note fra le “Operette morali” di Leopardi. E non è neppure solamente l’enunciazione di una concezione materialistica della natura. Piuttosto, è una proposizione che riflette l’idea che i giovani hanno della bellezza, che è sentita coincidere – al punto di confondersi –  con la loro immagine fisica. Una convinzione in sé né sorprendente né inattesa, dal momento che è nel corso dell’adolescenza che il rapporto col proprio corpo appare particolarmente stretto; e tuttavia essa merita un approfondimento.

Quello di bellezza è un concetto plurale. Bello, infatti, può venire riferito a un oggetto come a un’idea, a una persona come a un animale, a un paesaggio come a un dipinto, a un testo scritto come a una conversazione. Belli sono, nel ricordo, gli istanti di vita trascorsa, belli sono, nell’attesa, i giorni che ci aspettano a un angolo di tempo. Magari possiamo osservare, come fa Remo Bodei  ne “Le forme del bello”, che fino a circa due secoli fa “intrinsecamente bella viene in genere considerata soltanto la natura, l’essere” e che il prodotto artistico lo diventa nella misura in cui ne partecipa. Se ci fa voglia, possiamo anche mettere a confronto, per misurarne la distanza, l’idea di bello dominante nel Romanticismo e quella centrale nel Decadentismo, che ridimensiona tutto ciò che è spontaneo e immediato a vantaggio di ciò che è artificiale, complicato, cerebrale. Infine è possibile assumere il termine bellezza, come fa Tzvetan Todorov nell’introduzione del suo libro “La bellezza salverà il mondo”, nella sua accezione di significato più ampia (e magari non sempre corrispondente al senso comune), che è poi quello, per impiegare le parole del grande intellettuale di origine bulgara, di “ordinare la vita armoniosamente, secondo la coscienza di ciascuno”. Resta, però, il fatto che quello di bellezza è un concetto plurale. Eppure, nella mente e in bocca a un adolescente esso diventa singolare, unico, peculiare. Se gli chiediamo, infatti, a cosa gli viene da pensare quando si parla di bellezza, lui risponderà senza esitazione “a quel ragazzo, a quella ragazza”. Un corpo ben fatto, un volto gradevole, un certo modo di camminare, la maniera di vestire (nelle femmine anche di truccarsi), il taglio di capelli, l’ostentare sicurezza, spesso sfrontatezza, tutto ciò concorre a fare di un ragazzo un bel ragazzo, di una ragazza una bella ragazza, così vicini ai modelli esaltati dalla pubblicità e dallo spettacolo, così lontani, il più delle volte, dalla percezione che la maggior parte degli adolescenti ha di loro stessi. Tanto il fascino di un paesaggio quanto l’incanto di un pomeriggio trascorso dentro gli Uffizi finiscono, per i più giovani, in una sorta di cono d’ombra: forse solamente l’ultimo modello di iPhone nella vetrina del negozio di telefonia riesce a comunicare loro un senso di bellezza analogo, o lievemente inferiore, a quello suscitato dalla corporeità: la società del narcisismo sa essere spietatamente esclusiva e selettiva.

Gustavo Pietropolli Charmet, uno dei più noti psichiatri e psicoterapeuti italiani, in un libro di recente pubblicazione, intitolato “La paura di essere brutti. Gli adolescenti e il corpo”, ha sottolineato il mutamento intervenuto col tempo nel rapporto dei più giovani con il loro corpo. A lungo tale relazione è stata vissuta principalmente con un senso di colpa, legato all’insorgenza di desideri sessuali che segnano una profonda discontinuità con l’infanzia e che richiedono di essere conosciuti e gestiti. Oggigiorno, invece, appare dominante in loro il timore di non sentirsi abbastanza belli e che ciò possa pregiudicare la creazione di legami sociali e sentimentali, finendo col relegarli nei territori abitati dagli invisibili. E alcuni di loro, quasi convinti che tale epilogo sia ormai inscritto nel loro destino esistenziale, scompaiono davvero: sono gli hikikomori – fenomeno nato in Giappone ma ora diffuso anche in Italia – vale a dire quei ragazzi che abbandonano la scuola, si ritirano nel chiuso della loro cameretta e comunicano con l’esterno attraverso il computer. A conferma che la vergogna è un sentimento altrettanto pericoloso quanto la colpa, ma, se possibile, è più deleterio, dal momento che, come ha sempre osservato Pietropolli  Charmet nel corso di un’intervista rilasciata a “la Repubblica”, è meno facile da risolvere, “colpisce in profondità, non da scampo”. E nella percezione di tale diversità  rispetto ai modelli imperanti di “una società che chiede di essere sempre pronti a sfilare in passerella” risiede anche l’origine di patologie come l’anoressia o la bulimia, che possono essere lette tanto come riconoscimento della propria inadeguatezza fisica (da vincere con diete ferree e corse che sfiniscono o da accentuare punendo in ogni modo il corpo, ad esempio sformandolo) quanto come gesto estremo di ribellione verso una bellezza, quella dominante, che né si ama né si condivide.

Essere brutti è il solo peccato – ne sono convinti gli adolescenti – che non verrà mai perdonato, non da Dio, ma dalla società e, forse, perfino dal gruppo di amici e conoscenti che si frequentano con una certa assiduità. La decomposizione ha potuto ispirare una lirica di Baudelaire, la deformità un quadro di Picasso, la dissonanza una musica di Schönberg, ma non sentirsi belli, a quattordici come a diciannove anni, possiede il sapore amaro di una condanna che avvelena e rattrista i giorni di vita.

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