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I giovani e l’amore: “Pareva il mare, era solamente un’onda”

Barbino, il protagonista di quello che resta, a mio avviso, il miglior romanzo di Aldo Busi, Seminario sulla gioventù, si chiede, nel memorabile incipit, che cosa rimanga del dolore che abbiamo creduto di provare da giovani, e offre questa risposta: “Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore, stupore di essercela tanto presa per così poco”. Dunque, se traguardata attraverso il velo degli anni, anche la sofferenza patita a causa dell’amore in età adolescenziale pare ridursi a una lieve increspatura sulla superficie dell’acqua. Oltretutto, il dolore che abbiamo procurato all’altro, o che ci è stato procurato, rimane per lo più interno alla coppia. Non ci sono, infatti, genitori, fratelli e, soprattutto, figli, a farne le spese, a partecipare, talora in maniera profonda, delle incomprensioni e del malessere, che sempre si accompagnano a una storia che sta finendo o che è già finita: sotto questo aspetto, le lacrime dei giovani innamorati rigano pochi volti e non cambiano le sorti di un’esistenza.

Eppure, finché ci si trova coinvolti in una relazione, a quindici, a sedici, a diciotto anni, l’amore sembra non avere misura, né nel bene né nel male. In quanto esperienza eminentemente totalizzante, questo sentimento si pone al di là di tutto ciò che è calcolo, raziocinio, limite. Come la durata di certi pomeriggi appare sconfinata alla sensibilità di chi ama – il tempo si fa immobile, la luce è ovunque, dentro e fuori di noi, l’esistenza appare piena, felice, perfetta –, analogamente il vuoto di certe sere, vissute con la consapevolezza che nessuna chiamata giungerà da quella persona, proprio da quella persona da cui vorremmo che giungesse, e che il mattino seguente non ci sarà nessuno ad aspettarci al consueto luogo di appuntamento, ci afferra alla gola, ci spossa, ci conduce al cospetto del Nulla. Lo studio, gli amici, gli allenamenti, la partita della squadra del cuore alla domenica, tutto, ma proprio tutto, scivola nella più completa insignificanza. Ogni attività ci annoia, ogni discorso ci infastidisce: la solitudine appare l’unica condizione possibile per chi ad un tratto ha visto il proprio mondo perdere valore e significato.

L’angoscia dei giovani innamorati merita rispetto e attenzione da parte dei grandi. Una volta riconosciuto che l’amore è una malattia – come ci ricordano i poeti greci e latini, che molte volte costituiscono anche materia di studio peri nostri ragazzi –, sarebbe sbagliato accostarlo a un semplice raffreddore, al mal di gola, al limite all’influenza stagionale, istituendo, invece, paragoni con le patologie più gravi unicamente quando a essere vittime di Eros “dolceamara fiera” sono gli adulti. Contestualizzare (storicizzare) resta fondamentale, sia quando si ha davanti una classe sia quando si esaminano esistenze e vissuti. E come un docente non dovrebbe mai scordare di essere stato uno studente, così un adulto non dovrebbe mai dimenticare di essere stato un ragazzo. Senza il mantenimento di questo tipo di memoria, i rapporti generazionali sono destinati a restare conflittuali, mentre i ruoli si sclerotizzano, si istituzionalizzano, smarrendo la capacità di creare un dialogo che formi e informi. Ricordare l’incommensurabilità del baratro, in cui ci parve di sprofondare quella volta in cui la nostra ragazza ci disse addio, può aiutare a guardare con occhi diversi il giovane che a scuola pare diventato abulico, distratto, sofferente, e che in conseguenza di questo suo profondo malessere fa del perimetro della propria stanza il (nuovo) confine del mondo. La verità è che dinanzi all’amore siamo tutti vulnerabili e tutti indifesi. Né la saggezza né l’esperienza né l’età sono in grado di metterci al riparo dai suoi effetti devastanti e spesso imprevisti: meglio confessare con candore, a noi stessi e agli altri, che l’amore, come ha scritto una volta Carl Gustav Jung, rimane “sempre un problema, in qualunque periodo della vita dell’uomo”.

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