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Ho fatto la spia. L’America coi suoi miti e le sue cadute nel romanzo di Joyce Carol Oates

“Ho fatto la spia”, l’ultimo romanzo della scrittrice statunitense J. Carol Oates non delude gli appassionati che pure hanno già letto, in altri suoi testi, dei grandi temi che le stanno a cuore: la violenza, il razzismo, le debolezze umane, i valori e i disvalori, il senso di colpa delle vittime, la sottomissione, ma soprattutto la famiglia: l’America con i suoi miti e le sue cadute. Più di cento libri tra romanzi, raccolte di racconti, autobiografia, poesia, testi teatrali. Un ritorno a “I paesaggi perduti” della sua infanzia vissuta alla frontiera del Niagara (testo di carattere autobiografico) e a un breve racconto del 2004 “Riccioli rossi” in cui è condensata la storia di Violet. Tra l’altro questo è l’ultimo romanzo scritto da Oates, benché sia arrivato in Italia prima di “I pericoli di un viaggio nel tempo” in uscita alla fine di gennaio, per La Nave di Teseo. La storia di una diciassettenne in una società distopica, tema molto caro alla Oates. Un bellissimo romanzo, pieno di tensione narrativa e notevole sviluppo psicologico dei personaggi. 
 
La storia di Violet ci trasporta nell’America rurale lontana dalle grandi metropoli, che conserva un animo selvaggio, intollerante. Siamo nel 1991, ma potrebbe essere il secolo scorso o il 2020, tanto radicati sono certi comportamenti. Protagonista una ragazzina di 12 anni che racconta un segreto che ha sentito dalla sua stanza di notte. Aveva promesso di tacere, ma poi diventa testimone di un omicidio, commesso dai fratelli maggiori che colpiscono a morte, con una mazza da baseball, un ragazzo di colore. Violet racconta l'accaduto agli insegnati a scuola e questo provocherà l'arresto dei fratelli e il suo allontanamento dalla famiglia. Un esilio che durerà dieci anni e che lei vivrà sempre con grandi sensi di colpa per l’impossibilità di essere perdonata. Un paradosso. I suoi personaggi, a detta dell’autrice, cercano di inventarsi nuovi sé per sopravvivere, cosa a cui Oates crede fermamente, cioè a volte nella necessità della trasformazione. “Credo che tutti dobbiamo fare dei compromessi per vivere. Io ho fatto i miei. Se smetti di fare compromessi muori” come dice in un’intervista rilasciata al settimanale “Donna”.
 
Il romanzo racconta soprattutto delle dinamiche all’interno di una famiglia irlandese e del difficile equilibrio che si istaura fra i suoi membri. Come sempre, nell’opera di Oates, le questioni razziali e di classe, l’odio inconfessato per le donne, sono il perno della narrazione. Il titolo originale è “My life as a rat” (La mia vita da “ratto”), che nello slang americano è il corrispettivo dei nostri “spione” o “infame”, come la chiama il fratello e del ratto ha invece la capacità di fuggire con rapidità al momento opportuno. Violet denuncia, ma poi rimarrà sempre in silenzio, perché ha imparato che denunciare è una colpa. Silenzio su altre persone che abuseranno di lei e della sua incapacità di reagire. Se parla sarà di nuovo additata, abbandonata, colpevole. I fratelli sono violenti, in passato sono stati accusati di aver partecipato a una violenza di gruppo ai danni di una compagna di scuola ritardata, ma in qualche modo l’hanno scampata. Violenti e razzisti, anni dopo hanno investito un uomo, massacrato prima di botte e poi con una mazza da baseball. Non ci sono motivi né provocazioni, la vittima è un bravo ragazzo, simpatico e gentile con tutti, bravissimo a Basket e forse invidiato per queste qualità che secondo i fratelli non si addicono a un nero. Come non vedere il parallelo con la nostra cronaca e l’uccisione a Colleferro di Willi Monteiro Duarte, ammazzato durante un pestaggio nel tentativo di difendere un amico in difficoltà.  Proprio per mostrare quanto profondo sia il falso mito della superiorità della razza bianca, radicato negli Usa, Oates ricorda come fino agli anni cinquanta gli Irlandesi erano considerati non appartenenti alla razza bianca, alla stregua degli Italiani, dei greci e degli ebrei.
 
A dispetto di quanto subisce e della profonda ingiustizia della sua sorte, Violet non odia nessuno e continuerà a cercare un avvicinamento alla famiglia che l’ha allontanata. Desidera solo tornare perché vorrebbe essere perdonata. Un altro paradosso che mette in luce le contraddzioni di un paese libero, democratico, ma ancora profondamente razzista. Il romanzo, scritto in una prosa impeccabile, ci fa vedere che l’America è anche questo. Alternando strategicamente la prima persona alla seconda in una sorta di estraniazione della protagonista che si osserva vivere, incapace di sottrarsi a ciò che gli altri vogliono da lei. Alla scrittrice non interessa spiegare il perché dell’aggressione razzista o la psicologia dei carnefici, ma vuole parlarci di chi è più debole (i violenti risultano ancora peggiori se mostrati attraverso l’occhio di chi subisce, di chi non li asseconda, di chi è costretto a scappare). “Questa è la grande debolezza – desiderare di essere benvoluta, amata. Rinunci a qualsiasi dignità quando vuoi essere benvoluta, amata”.
 

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