Il poeta turco Nazim Hikmet (Salonicco 1901 – Mosca 1963) sosteneva che la poesia era necessaria all’umanità, “utile a una causa, utile all’orecchio…”. Dunque auspicava che divenisse un “mezzo normale e naturale” del discorso umano. Lui, in effetti, la praticò in tal senso. Imprigionato, esiliato dal suo paese per ragioni politiche (denunciò, tra le altre cose, il genocidio armeno) scrisse versi di impegno, di denuncia, d’amore. Sempre fedele a quella sua dichiarazione di poetica secondo cui la poesia doveva essere universale, parlare a tutti, traducibile in ogni lingua, per ogni cultura e stato d’animo.
Di notte, in mare, guarda l’albero,
cipresso inargentato:
ha detto il poeta Nedim.
C’era un poeta di Riazan, Esenin,
innamorato delle sue betulle,
candide, malinconiche ragazze.
Da quando vivo lontano da casa,
un pioppo freme in me e piange
di tristezza e canta.
Come tutti gli alberi del bosco
il pioppo se ne resta sempre in piedi,
sta lì e aspetta.
In una calda giornata di luglio
rimira fino a sera la strada
e le casette del villaggio di Bursa.
Ogni notte sino all’alba,
il pioppo mi aspetta,
urlando alla porta del carcere.
Ehilà, pioppo, amico mio!
Testimone fedele dei nostri giorni,
delle speranze e dei pidocchi,
della vergogna e dei sacrifici,
della nostra secolare sventura
e dei nostri lavori nei campi!
Che senso c’è, mia cara patria,
nel mio amore per i pioppi,
a che serve, dolce patria, la mia lode?
Bagnando la sabbia col mio sudore rovente
non ho potuto un solo pioppo coltivare
sulla mia terra natia.
[N. Hikmet, “Il pioppo” da Poesie]